A circa 40 chilometri a sud di Siena, abbracciata da una possente cinta muraria e circondata dalla splendida Val d’Orcia, si incontra Montalcino. Questo borgo medievale, rimasto pressoché inalterato dal XVI secolo in avanti, è la culla di uno dei fiori all’occhiello del panorama enoico del nostro Paese.
La storia del Brunello di Montalcino, contrariamente a quanto si possa pensare, ha tuttavia origini piuttosto recenti. Sebbene quelle dolci colline protette dal Monte Amiata, che ne mitiga il clima, abbiano da tempi antichi ospitato la viticoltura, la tradizione locale non vedeva primeggiare tra i filari le uve a bacca rossa, bensì quelle a bacca bianca. Era infatti il Moscadello il vino della zona, dolce nettare prodotto con uve Moscato, talora passite, famoso già all’epoca di Francesco Redi che nel XVII secolo lo menziona nel suo Bacco in Toscana. Sarà necessario attendere la seconda metà del 1800 per intravedere l’avvio di quella che diventerà una delle denominazioni più importanti d’Italia che può vantare, ad oggi, la presenza di alcune etichette tra le aste più ambite del mondo. Nondimeno, sono molteplici i premi di prestigio assegnati ad aziende del territorio, come il caso del Brunello di Argiano (annata 2018), riconosciuto come miglior vino del mondo per il 2023 secondo Wine Spectator nella sua top 100.
Eppure, se non fosse stato per la caparbietà di Clemente Santi, probabilmente il Brunello, come lo conosciamo oggi, non sarebbe mai esistito. Chimico e farmacista, Clemente era incuriosito dalle potenzialità del Sangiovese e, nei suoi studi, si concentrò in particolar modo sul clone locale, appartenente al biotipo Sangiovese Grosso, denominato localmente Brunello in virtù del colore dei suoi acini. Recenti studi hanno dimostrato, peraltro, l’analogia di questo clone con quello presente nell’areale di Montepulciano, impiegato nella produzione del Vino Nobile omonimo, e conosciuto anche come Prugnolo gentile. È il 1869 l’anno in cui il primo Brunello di Clemente, frutto della vinificazione di uve Sangiovese in purezza, riceve una medaglia enologica. Si chiamava semplicemente “vino rosso scelto”, ma, circa vent’anni dopo, nel 1888, con Ferruccio Santi, nipote di Clemente, vedrà la luce la prima bottiglia recante ufficialmente il nome di “Brunello”.
DOC dal 1966, nel 1980 il Brunello di Montalcino è il primo vino d’Italia a essere insignito della DOCG. L’areale di produzione ha visto in pochi decenni un importante incremento degli ettari vitati, passando da meno di 70, nel 1967, ai 2000 attuali. Al netto delle regole imposte dal disciplinare di produzione, che prevede un minimo di 24 mesi di affinamento in legno per un totale di minimo 4 anni di invecchiamento (6 per poter apporre la menzione “Riserva”), l’areale di Montalcino, per la sua disposizione geografica e la composizione dei suoli, lascia una tangibile impronta sui vini in virtù del quadrante in cui sono coltivate le uve. La zona nord, infatti, è quella sicuramente più fredda, molto poco valorizzata in passato ma che, con il cambiamento climatico, sta invece dando risultati sempre più soddisfacenti: il clima qui è maggiormente di tipo continentale, con estati calde e inverni freddi. Il terreno è molto ricco e questo conferisce ai Brunello ivi prodotti grande robustezza, che si accompagna a una buona complessità olfattiva. Al versante opposto, la zona Sud, con temperature medie più elevate, mette in mostra la potenza alcolica di questi vini. Molto più ventilate, invece, le zone Est e Ovest, per opera, da un lato, del monte Amiata, dall’altra, delle brezze marine, che in entrambi i casi mitigano il clima. Seppur nella sua variabilità, un calice di Brunello è dotato di un’identità ben distinta e un potenziale di invecchiamento davvero invidiabile. Il calice, in virtù dell’invecchiamento a cui è sottoposto, si presenta rubino dai riflessi granata. Il naso è complesso e improntato su note terziarie eteree, sensazioni di tabacco, cuoio, goudron, spezie, ma anche mallo di noce, violetta e rosa appassita, che quasi nascondo in prima battuta le note fruttate di amarena e prugna, che virano verso il kirsch nelle annate più vecchie. Il sorso è ben teso, dai tannini nerboruti, ma aggraziati, nelle annate più giovani, che si fanno via via più distesi e vellutati, complice il passare del tempo. La freschezza resta in ogni caso un carattere dominante di questo vino, anche a distanza di molti anni dalla vendemmia, presentandosi così sempre nella sua veste migliore, campione di longevità sorretto dalla sua struttura, dall’alcol e dall’acidità che il Sangiovese riesce a sprigionare.
Nella scelta degli abbinamenti, dunque, non potremo certo optare per piatti delicati nella loro essenza, onde evitare di essere sovrastati dall’impeto del Brunello. Dovremo perciò preferire pietanze aromaticamente compatibili e altrettanto ricche di succulenza per soddisfare il tannino ad ogni boccone. Carni importanti come la selvaggina da pelo, potranno dunque fare al caso nostro, come dei pici al ragù di cinghiale, la Scottiglia di cinghiale con polenta o un cinghiale in umido. Anche un buon peposo o, ancora, un petto d’anatra accompagnato da una salsa, faranno al caso nostro. Qualora voleste optare per una carne alla griglia il suggerimento è quello di evitare la Chianina: trattandosi di un animale da lavoro la tessitura presenta poco grasso per poter appieno sposare il tannino del Brunello. Come conclusione dolce, tuttavia, concedetevi un assaggio di Moscadello passito in abbinamento alla pasticceria secca della tradizione toscana o formaggi erborinati secondo il vostro gusto, per una coccola di fine pasto.
Alessandro Brizi,
marzo 2024