Per molto tempo snobbati dalla critica e banditi dalle cantine dei ristoranti, i cosiddetti Orange, ovvero i vini bianchi vinificati come rossi, con tempi di macerazione a contatto con le bucce particolarmente lunghi, si sono presi una bella rivincita. L’antipatia nei loro confronti dipendeva soprattutto dal fatto che, essendo lavorati in regime biologico e biodinamico (quindi senza l’impiego di sostanze chimiche), fossero facile preda della tanto temuta ossidazione che, come è noto, è sinonimo di sgradevolezza al palato. L’enologia moderna per scongiurare questo pericolo ha fatto notevoli passi in avanti consegnando a questa «nuova» sfumatura di bianco un meritato posto a tavola.
E a proposito di sfumatura... la nuance aranciata e/o ambrata dipende da diversi fattori. Dalla varietà dell’uva anzitutto, dalla maturazione del frutto, dal recipiente utilizzato per l’affinamento e, in particolare, proprio da ciò che si diceva all’inizio: in fase di macerazione, il mosto, grazie al prolungato contatto con le bucce, trae da queste la particolare colorazione.
Carichi di profumi e sapori, ben predisposti a lunghi invecchiamenti, per molti gli Orange sono vini addirittura «buoni da mangiare». Non a caso, si parla di vino alimento. Al naso regalano spiccate note erbacee e fruttate, mentre al palato, grazie a una presenza tannica (più o meno marcata) risultano decisamente più complessi e strutturati di bianchi e rosati. Ciò, tuttavia, non deve far pensare che non siano capaci di restituire anche sapidità e freschezza. L’abilità del vigneron sta proprio in questo: nella capacità di domare con saggezza, dovizia, e tanta pazienza, lo spirito libero di questo particolare nettare.
Per via della loro complessità gli Orange wine sono considerati la metà perfetta di cucine asiatiche, prima fra tutte quella giapponese. Verissimo, ma sanno accompagnare magistralmente anche piatti di carne. Con un capretto al forno, cantano gli angeli.
Chiara Risolo
marzo 2023
