Quella del Verdicchio è la storia di un migrante che, alla fine del Quattrocento, parte dalla originaria campagna veronese e lombarda per approdare nelle Marche; proprio nel centro di una regione appena dilaniata, al tempo, da un’epidemia di peste. Nel biennio 1469-1470 l’intera Marca di Ancona fu colpita da una pestilenza che decimò non solo la popolazione delle cittadine ma anche i villaggi rurali, con conseguente spopolamento delle campagne. Così dal 1471 si attivò un flusso migratorio di contadini e braccianti dalla Romagna, dall’Emilia, ma soprattutto dalla Lombardia e dal Veneto per riportare a produzione le sfortunate terre.
Oltre ad animali e piante i migranti veneti e lombardi portarono con sé anche delle varietà di uva bianca oggi note come Trebbiano di Soave e Trebbiano di Lugana che, di lì a poco, in questa nuova terra, si confusero probabilmente, si evolvettero e, infine, presero il nome di Verdicchio. La parentela e l’identità tra il Verdicchio e le due varietà lombardo-venete è stata accertata nei primi anni Novanta del '900 e poi confermata con analisi del DNA nei primi anni del Duemila. Uva locale che, nei secoli, ha viaggiato poco, spingendosi al massimo nell’area dei Castelli Romani, dove, tuttavia, è sempre stata marginale, Il verdicchio ha conosciuto una notorietà solo negli anni Cinquanta del ‘900, in un contesto di ripresa dei consumi e di rinnovamento dei costumi. Un po’ inconsapevolmente questa uva delle Marche fornì un primo status symbol enologico: la bottiglia a forma di anfora del Titulus di Fazi Battaglia. Correva l’anno 1953 quando Francesco Angelini, uno dei fondatori della famosa azienda marchigiana, indisse un concorso per la realizzazione di un contenitore che rendesse subito riconoscibile il suo Verdicchio. A vincere fu l’architetto milanese Antonio Maiocchi, con una bottiglia che ricordava le anfore etrusche. Per tutti gli anni Sessanta e non solo i simboli del vino italiano a casa nostra e nel mondo sarebbero stati il fiasco impagliato del Chianti e l’anfora del Verdicchio. Nel 1967 fu istituita la DOC Verdicchio di Matelica e l’anno successivo quella dei Castelli di Jesi; solo nel 2010 arriveranno le DOCG Castelli di Jesi Verdicchio Riserva e Verdicchio di Matelica Riserva, entrambe con invecchiamento minimo di 18 mesi. Nonostante il successo della moda dell’“anforetta” di Fazi Battaglia, il Verdicchio longevo, importante, complesso e deciso che oggi, in alcune versioni, conosciamo è figlio degli anni Novanta, di una enologia più tecnica ma soprattutto di un lavoro agronomico teso a valorizzare le differenti aree delle due denominazioni di Matelica e Jesi, fratelli diversi, nel calice, così come nella geografia, nel clima e nei suoli.
L’areale di Matelica (8 comuni, 6 nella provincia di Macerata e due in quella di Ancona) è interna e quasi appenninica, con un’altitudine media delle viti compresa tra i 400 e i 650 metri, forte escursione termica leggeri influssi del mare sono minimi. I suoli qui sono calcarei e caratterizzati da fossili di origine marina. I Matelica sono dei Verdicchio meno duttili di quelli dei Castelli di Jesi, con acidità spiccata e aromi floreali ed erbacei pronunciati. Si avvertono sentori di mandorle tostate, cedro e miele, preludio di un gusto sapido, ricco e molto fresco, con una ottima propensione alla longevità.
L’areale di Jesi, più spostato verso il mare, abbraccia, invece, la media valle del fiume Esino e la valle del fiume Misa. Qui si distingue la zona classica, ossia quella di più antica produzione, che comprende diversi comuni tra cui Castelplanio, Cupra Montana, Jesi, Maiolati Spontini, Montecarotto, Morro d’Alba, Serra de’ Conti. I vigneti si trovano tra 75 e 550 metri sul livello del mare e gli influssi ventilati dell’Adriatico condizionano il clima mediterraneo della zona. La composizione dei suoli è varia: nei vigneti collinari prevalgono le argille e i calcari, mentre nelle zone pianeggianti la natura alluvionale dei terreni fa emergere ciottoli e pietre. La maturazione delle uve nei Castelli di Jesi è anticipata rispetto a Matelica e i vini sono, generalmente, più strutturati, con note aromatiche intense di fiori e di frutta matura tra cui camomilla, ginestra, biancospino, tiglio, agrumi, pesca, melone e albicocca. A questi si aggiungono sentori di anice stellato ed erbe aromatiche come timo e salvia. Fresca la bocca, lievemente sapida, più strutturata nelle versioni Riserva o Vendemmia tardiva in secco e dolce nei Passiti, che anticipano un corredo aromatico di frutta secca, miele e pasticceria.
In entrambe le denominazioni gli Spumanti esaltano le doti di freschezza dell’uva, regalando un assaggio teso e vibrante, dalla carbonica sottile e dai sentori fruttati e floreali tipici della varietà.
Gli abbinamenti
Sul versante abbinamenti, poi, il matrimonio d’amore è con la tradizione marinara dell’Adriatico, dalle ostriche locali, ai brodetti, passando per pesci grigliati e al forno. Le versioni più strutturate e le Riserve possono ben accostarsi anche a carni bianche come coniglio o quaglie, mentre per i Passiti l’abbinamento è, oltre a crostate di frutta e dolci al cucchiaio, senza cacao però, con i formaggi stagionati ed erborinati, a cominciare dal Pecorino di fossa, per finire con un più classico Gorgonzola.
Matelica e Jesi sono due facce della stessa medaglia, o meglio, dello stesso vitigno, poiché solo tra le colline, le valli e i fiumi di questo lembo di terra tra le provincie di Ancona e Macerata, il Verdicchio sembra aver trovato la sua patria d’elezione, rendendosi imprescindibile, in tutte le sue molteplici declinazioni, dal territorio di origine.
Alessandro Brizi
aprile 2023