Cosa c'è di più semplice e di più buono di un piatto di spaghetti con le vongole. A quali dei due protagonisti tocca il merito? Sicuramente l'abbinata è perfetta ma l'ago della bilancia lo faccio pendere verso le vongole.
Piccole, abbondanti, poco costose, richiedono minima cura prima di arrivare in padella, dove peraltro sostano pochissimo. Quindi hanno molte qualità, che purtroppo non servono per renderle importanti come altre conchiglie. È il destino delle cose semplici: passare inosservate. Eppure le "puraze" o "peverazze", come le chiamano in quel tratto di mare Adriatico tra Romagna e litorale piceno, dove dal XIV secolo è documentata la loro pesca, hanno contribuito alla sopravvivenza delle popolazioni locali.
Il nome evoca la parola "povero" ma almeno dal punto vista etimologico nulla ha a che vedere con quel termine. "Puraza" deriva da "peverazza" che a sua volta deriva da "pevere", ossia pepe, in quanto la valva ha giusto l'aspetto e il colore del pepe macinato grossolanamente. Nome a parte, per lungo tempo sono state considerate "le più miserabili dei molluschi", come scrive agli inizi del `900 lo scrittore Alfredo Panzini: "la loro povertà potrebbe tutt'al più derivare dalla grande loro produzione che le fa diventare vili di prezzo. Oh innumerevoli peverazze, voi siete le ostriche della povera gente".
E per pescare queste "ostriche" c'erano due modi: a riva, lo testimoniano disegni, dipinti e poi fotografie che ritraggono uomini e donne (ma soprattutto queste ultime) con le gambe in acqua chini per ore a raccogliere; oppure in mare, al largo dove la profondità è di 10-12 metri con barche dotate di un apposito attrezzo. La vendita era locale e i pescatori part time.
Infatti l'attività di pesca si svolgeva soltanto nei mesi con la R, quando le "puraze" sono più grasse, l'altra parte dell'anno era dedicata all'orto con la coltivazione di cavolfiori e pomodori. Tanto che valeva il detto: "Puret chi le pesca, puret chi le vend e puret chi le magna". Come? Semplicemente aperte sulla piastra della stufa a legna e rare volte con pomodoro e cipolla per il sugo della pasta. Ma c'era anche chi le metteva in un sacchetto di tela e le faceva aprire con il vapore sull'acqua, così il profumo del mare rimaneva intatto.
Nonostante tutto, nomi illustri nella storia dei testi culinari, a partire dal `400, si sono scomodati a citare le vongole: dal maestro Martino da Como a Vincenzo Corrado. Non solo, le "puraze" compaiono anche sulle tavole dei nobili per i giorni di penitenza, nei banchetti nuziali e alla mensa dei Papi. Nel 1834 Vincenzo Agnoletti, cuoco della Duchessa di Parma Maria Luisa, consiglia di "apprestare" le vongole "come l'ostriche" e nel 1891 Pellegrino Artusi di metterle "al fuoco con un soffritto di aglio, olio, prezzemolo e una presa di pepe".
A partire dai primi anni del `900, con il miglioramento delle comunicazioni, la disponibilità del ghiaccio e di imbarcazioni apposite, la pesca delle vongole diventa una vera attività commerciale. E le mogli dei pescatori hanno contribuito non poco trasformandosi in pescivendole ambulanti. Al grido di "puraziâ dàni" (vongoleâ donne!) in Romagna o di "A vlà li puracc" (volete le poveracce) nelle Marche, partivano all'alba in bicicletta e raggiungevano i paesi dell'entroterra, oppure vendevano le puraze alle industrie conserviere: un sacco di settanta-ottanta chili sul manubrio.
Anni Trenta, Cinquanta, Sessanta alcune hanno proseguito l'attività sino alla soglia del 2000. Un altro mondo, molto distante da noi che comodamente troviamo le vongole dal pescivendolo o al supermercato. Le puraze sono sempre le stesse, umili, gustose, abbondanti e poco costose. E settembre è un mese con la R.
Laura Maragliano
agosto 2022