Cosa ci spinge a desiderare un cibo piuttosto che un altro? E perché i dolci e gli alimenti ricchi di zuccheri ci attraggono tanto? È tutta colpa dei meccanismi ancestrali di conservazione della specie.
Il concetto della ricompensa naturale è uno dei pilastri delle neuroscienze. In pratica è un meccanismo di autodifesa animale: per poter essere ripetuti e garantire la vita, atti fondamentali per la sopravvivenza come mangiare, accoppiarsi e nutrire la prole devono essere attività che danno soddisfazione e piacere, anche a livello cerebrale.
Ma come funziona il sistema che decifra e regola nel nostro cervello i meccanismi delle ricompense naturali? Prendiamo un atto piacevole che già conosciamo, tipo affondare il cucchiaio in un goloso crème caramel, cosa succede a livello cerebrale? Un gruppo di neuroni (l’area ventrale segmentale) attiva un neurotrasmettitore (la dopamina) che provoca desiderio e spinge all’azione. Il cervello la prima volta registra la sensazione piacevole e successivamente la ricorderà. Così ogni volta che ci troveremo di fronte a una situazione analoga il desiderio sarà immediato e persino crescente. Con cibi acidi o amari accade proprio il contrario.
Queste reazioni così fisiche affondano le radici nelle esigenze primarie dei nostri antenati. Il rifiuto verso cibi acidi non era altro che una difesa inconsapevole dell’uomo primitivo: assaggiando bacche acidule i suoi neurotrasmettitori si attivavano per metterlo in allerta e lo portavano ad allontanarsi da frutti che potevano essere non maturi o velenosi. Al contrario i cibi dolci, fonte di carboidrati estremamente energetici, suscitavano un’attrazione fortissima.
Questi meccanismi si sono conservati anche a distanza di centinaia di migliaia di anni, nonostante non viviamo più nelle situazioni estreme dell'uomo della savana. E anzi, i segnali che arrivano dai nostri neurotrasmettitori in molti casi possono risultare addirittura ingannevoli, spingendoci ad azioni nocive e contrarie al nostro innato spirito di conservazione. È il caso del consumo di zuccheri che sta aumentando vertiginosamente nell’uomo contemporaneo.
Il problema non sta tanto nel suo consumo allo stato puro, quando alla sua presenza in tantissimi alimenti in commercio. Persino i più insospettabili come sughi e conserve ne contengono per migliorarne il sapore, abbassarne l’acidità o prolungarne la conservazione. Questi zuccheri aggiunti sono presenze subdole che creano dipendenza, alla stregua di droghe come nicotina, cocaina ed eroina. Il dolce è ricordato dal cervello come sostanza estremamente gratificante che mette in moto i meccanismi della ricompensa naturale di cui dicevamo.
Un articolo dell’Independent (leggi qui) racconta come imparare a fare a meno degli zuccheri somigli molto a una terapia di disintossicazione, durante la quale il soggetto prova sgradevoli sensazioni di ansia e depressione. Il pezzo spiega in dettaglio come si attiva la produzione della dopamina e come funzionano gli scambi neuronali tra recettori, corteccia frontale e sinapsi. Arrivando al dunque, tuttavia, è chiaro che il consumo abitudinario di zucchero, sul lungo periodo, ne aumenta la necessità, provocando il desiderio di consumarne sempre di più.
Non solo: nei ratti l’assunzione prolungata determina comportamenti passivi e gli animali si mostrano meno reattivi anche di fronte a situazioni di pericolo, che istintivamente dovrebbero provocare la fuga o il tentativo di salvarsi. Un po’ come se ci fosse un grave stato depressivo. In più, messi di fronte a soluzioni di acqua e zucchero, le reazioni dei topi diventano incontrollate, aggressive e impulsive: farebbero anche qualunque sciocchezza pur di ottenere la soluzione zuccherina.
Ricorda qualcosa questo atteggiamento privo di controllo?
Negli esseri umani gli esperimenti non sono stati così estremi e l’argomento della dipendenza provocata dagli zuccheri è ancora un tabù, ma vale la pena tenere d’occhio il tema.
Barbara Roncarolo
5 marzo 2015