Dal Prié Blanc di don Bougeat al Ruchè di don Cauda fino alla viticoltura arbereshe di papàs Hagi: un viaggio attraverso le storie di parroci che hanno salvato vitigni in via d’estinzione. Tra tradizione, fede e passione per il vino
Un tema che risulta ancora poco trattato in letteratura è il rapporto tra vino e chiesa. Non per indagare le abitudini alimentari di chi ricopre il sacro ministero; piuttosto per evidenziare il ruolo strategico che certi parroci hanno rivestito nel recupero di vitigni e vini sull’orlo della scomparsa, umili e fecondi operai nella vigna del Signore per dirla con Benedetto XVI. Sfogliando le cronache di parroci operai della vigna, in effetti, se ne incontrano numerosi: dal caso del riscatto del Prié Blanc portato a nuova luce da don Alexandre Bougeat in quel di Morgex (Aosta) al salvataggio del Ruchè avvenuto negli anni Sessanta da don Giacomo Cauda a Castagnole Monferrato (AT) sino alla meritoria opera di papàs Elia Hagi nella promozione e nello sviluppo dell’odierna viticoltura arbereshe sulle colline calabresi di antica cultura albanese.
Di don Alexandre Bougeat se ne occupò Mario Soldati in Vino al vino, descrivendo i suoi viaggi avvenuti tra il 1968 e il 1975. Descrisse il Prié Blanc come fresco, sottile, delicato, lievissimamente profumato lasciando parlare l’abate: “Le vigne richiedono una cura eccezionale. La vite normale, in pianura o in collina, comincia a dare i suoi frutti dopo due anni o tre che è piantata. Qui ce ne vogliono dieci! Cresce soltanto qui, sui versanti a sinistra della Dora, nei comuni di Morgex e di La Salle, in mezzo alle rocce che conservano il calore del sole”. Un vino le cui vigne sono piantate a oltre 1000 metri, tanto in alto da toccare le porte del paradiso. Don Bougeat inizi a migliorare la lavorazione di questo vino, che sino ad allora veniva utilizzato per il consumo familiare e nelle trattorie del paese. Nel 1964, dopo avere ristrutturato la cantina della canonica, si confronta con i vignaioli e li stimola ad ammodernare il metodo per ottenere il vino. Nel 1968 spumantizza il Prié Blanc e ottiene il metodo classico più alto in Europa, che verrà ripreso nel 1983 dalla cantina cooperativa. Fonda inoltre la Association des viticulteurs, garantendo la continuità del lavoro contadino di montagna e la prosecuzione della coltivazione del Prié Blanc. Nel 1985 Piero Brunet acquista da Marie Bougeat, sorella del curé, alcuni dei vigneti messi a coltura vent’anni prima. Ancora oggi Brunet le coltiva ottenendo un vino color bianco carta dai leggeri profumi di camomilla, sapido e secco.
Il 2024 ha coinciso per il Ruchè con il cinquantesimo anniversario della prima bottiglia voluta da don Giacomo Cauda. La Vigna del Parroco è oggi condotta da un altro profeta del Ruchè, Luca Ferraris. “Con i guadagni fatti oltreoceano il bisnonno acquistò una cascina che il nonno condusse, ma non trovò continuità con mio padre, che si trasferì a Torino. Tornai in campagna nel 1999, cercando di interpretare le potenzialità di questa terra”. Tra il 2005 e il 2015 ingenti investimenti hanno trasformato il paesaggio delle colline intorno: gli ettari vitati passarono da 50 a 200, riconvertendo i gerbidi a vigneto e sancendo la conoscenza del Ruchè fuori dai confini monferrini. Si narra che don Cauda anteponesse la vigna al suo ministero e avesse ricoperto la parrocchia di debiti. “Che Dio mi perdoni per aver a volte trascurato il mio ministero per dedicarmi anima e corpo alla vigna. Finivo la messa, mi cambiavo in fretta e salivo sul trattore. Ma so che Dio mi ha perdonato perché con i soldi guadagnati dal vigneto alla fine ho creato l’oratorio e ristrutturato la canonica” diceva nei suoi ultimi anni di vita. Se oggi vedesse queste colline ordinate avrebbe tanto altro da aggiungere per il suo perdono. Ferraris coltiva tuttora Vigna del parroco, interrata da don Cauda nel 1964, ovvero la vigna più vecchia interamente coltivata con questa varietà, rivolta a nord est: un cru a tutti gli effetti. Ottiene da essa, con vendemmia manuale –“essendo stata piantata cinquant’anni fa, non è pensata per la vendemmia meccanica”- un vino luminoso, rubino e con sfumature porpora che regala al naso esaltanti aromi di rosa e geranio, ciliegie e susine. Dal sapore asciutto, le annate dal 2010 al 2013 hanno evidenziato una notevole stoffa e buona persistenza.
Papàs Elia Hagi è il parroco di Vaccarizzo Albanese, nel Cosentino. Il vino ha sempre rappresentato la sua passione e da vent’anni organizza un concorso di piccoli produttori di vino, “il vino fatto in casa come sempre è stato fatto su queste colline”. Lo fa proprio per preservare la tradizione e riscattare quei lembi di terra che stavano per essere invasi dal bosco. “Per il concorso raccolgo i campioni nei comuni arbreshe, circa 200 tra rossi, bianchi e rosati. Poi, con una commissione di sommelier capiamo se c’è un’evoluzione perché l’obiettivo è proprio questo: incentivare il miglioramento del vino nelle comunità arbreshe”. Alcuni hanno fatto strada e hanno comprato terreni, messo vigne, iniziato a imbottigliare. Come Pietro Godino di Vaccarizzo Albanese: il Pjuhur, che significa polvere da sparo, ha vinto numerose edizioni del concorso e oggi è uno dei vini più ricercati nell’area. La giovane Rossella Stamati (per inciso, nome del primo vescovo arbreshe) ha puntato tutto su Prospero, un rosso che si abbina anche al pesce. I suoi vigneti si percorrono a piedi o in mountain bike, apprezzando l’atmosfera pacata delle colline di Plataci. Papàs Hagi ha anche escogitato un modo per mettere al centro tutti i produttori: chiedere loro i migliori grappoli che verranno vinificati in un’apposita cantina e forse un giorno si potrà contare su un vino… ecumenico. Il vino possiede il grande valore di fare sentire tutti fratelli. Come la Vigilia dell’Immacolata a Lungro, quando si aprono le botti del vino novello insieme al sindaco e a tutti i produttori. Di cantina in cantina, si finisce con una grande festa.
Riccardo Lagorio,
aprile 2025