Antefatto. Mi capita per le mani un vecchio numero della rivista Gambero Rosso e l’occhio cade su un articolo dedicato a una pasticceria sarda che produce come una volta un dolce, ma sarebbe meglio dire un pane ripieno, che veniva offerto la notte di Capodanno come buon auspicio. Il pane si chiama su càpude ( e si pronuncia su càbude) e l’idea di ritrovarne la ricetta mi stuzzica, è un peccato perdere tradizioni che fanno parte del nostro passato.
Mi metto alla ricerca. La proprietaria della pasticceria Corveddu di Nughedu di San Nicolò ci tiene alla sua ricetta che custodisce gelosamente, non è pronta a rivelarla, ma è prodiga di consigli. A questo punto gli attori della commedia aumentano: la redazione e una serie infinita di nonne e nonnine di mezza Sardegna trovate per passaparola. Tutti alla ricerca del su càpude. Sono testarda, lo so, ma ne è valsa la pena.
Epilogo. La ricetta è stata trovata nell’archivio del Museo Demoetnoantropologico Francesco Bande di Sassari, grazie alla complicità di Enoria Bande, la direttrice, e di sua mamma Bastianina, che sapeva dove cercare (proprio quella famiglia Bande nota nel mondo per la diffusione della musica sarda). E insieme alla ricetta un fiume d’informazioni.
Il su càpude, tipico della provincia sassarese, esisteva già in epoca precristiana, quando il Capodanno coincideva con l’inizio dell’anno agrario a settembre. Anticamente era preparato impastando semola fine con pasta madre, acqua e sale, e in seguito confezionato in versione dolce con un guscio simile a quello delle seadas (semola, strutto, acqua) ripieno di sapa, miele e mandorle.
Non mancava mai a Capodanno nelle famiglie di pastori e contadini e, secondo il rito propiziatorio, il capofamiglia spezzava il pane prima sulla testa della persona più anziana e poi su quella della più giovane. Ritrovarlo è stato un piacere, così come assaggiarlo nella nostra cucina prima di fotografarlo. La redazione si è divertita a ripetere il rito, prima sulla mia testa (la più anziana) e poi su quella del redattore più giovane. Speriamo funzioni. Ve lo saprò dire.
di Laura Maragliano
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