Si parla di gin, naturalmente, che allora era fizz e tonic e servito alla bell’e meglio in bicchieri di plastica mentre si ballavano i Bon Jovi e Jovanotti, mentre ora è miscelato con cura da bartender hipster in stilosissimi speakeasy.
Ma partiamo dalle origini. Gin come ginepro, il protagonista delle botaniche – cioè il mix di spezie – che profumano il distillato di frumento e orzo. Lo inventarono gli olandesi nel Seicento ma deve la massima diffusione agli inglesi che alla fine di quel secolo lo scelsero come antagonista domestico dell’inviso cognac francese fino a renderne dipendente la popolazione (ancora Orwell in “1984” lo mette nelle razioni alimentari distribuite al popolo nel suo futuro distopico).
Infatti proprio London Dry si chiama oggi il gin classico, quello che il master distiller produce mettendo tutte le botaniche nell’alambicco, realizzando un nettare assai secco (ce ne sono poi tanti altri tipi: l’Old Tom, il Plymouth, lo Sloe Gin, il Jenever, tutti con botaniche e accortezze proprie).
Dunque, la domanda è: cos’è cambiato da quel gin fizz a base di Beefeater o Gordon’s (nella migliore delle ipotesi) che bevevamo ascoltando i Depeche Mode a oggi, mentre sorbiamo un raffinatissimo cocktail di fronte a un barman con baffi e bretelle? Come spesso succede, la rivoluzione gastronomica è nata in Spagna una decina d’anni fa.
Ai congressi gli chef riscoprono il prodotto e fanno diventare il gin tonic il classico da fine serata (Davide Scabin del Combal.Zero ne ha fatto un tormentone, offrendolo agli amici chiamandolo “tisana”), sulle ramblas la gente della movida vede arrivare il Gin Mare, che tra le botaniche ha l’oliva arbequina, il timo, il basilico e il rosmarino, il tutto in un packaging molto cool.
E parte la revolucion. Che arriva in Italia un paio di anni fa. Oggi un qualsiasi locale di buon cabotaggio – grazie al lavoro degli importatori che hanno fiutato il business – ha una carta dei gin lunga come una quaresima. E la cosa funziona. Eccome se funziona. Tanto da convincere anche gli italiani a farsi produttori: ci sono tante etichette nostrane, come il Sabatini Gin, un London Dry a base di botaniche toscane, dall’olivo al finocchio selvatico fino alla salvia; o come il savonese Gino Origine, il sardo Giniu di Silvio Carta, quello di Roby Marton che viene dalle Dolomiti e così via.
Tra tanta offerta, ognuno può scegliere il proprio, ché i gusti cambiano totalmente a seconda dalle spezie e ci sono distillati più secchi e più morbidi.
I più rigorosi ameranno l’inglese Haswell, gli amanti della natura lo scozzese Carounn (ottenuto dall’infuso di vegetali tipici della tradizione celtica), il pubblico femminile spesso opta per il Monkey 47, molto beverino, dolce.
Gli chef, si sa, prediligono l’Hendric’s con la sua bella bottiglia nera: è perfetto per un gin tonic come si deve, magari con zenzero e cetriolo (che va bene sulle botaniche dell’Hendric’s ma “ucciderebbe” quelle di altri gin, quindi è sconsigliato altrove). Ca va sans dire, difficilmente si beve il gin “liscio”, lo si usa abitualmente nella mixology.
“Quelli che vanno di più sono il gin tonic e il cocktail Martini – racconta Antonio Masi, già allo Smile Tree, al Mad Dog, al Bar Cavour de Il Cambio e ora bartender da Spazio7, il ristorante della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino –, ma tra i miei preferiti c’è il Bijou, una ricetta degli primi del Novecento con gin, vermouth e chartreuse.
E il mio gin preferito rimane un classico, il Bombay Sapphire”.
Chiediamo a Masi se c’è un corretto abbinamento tra gin e tonica per il gin tonic: “certo, morbido con morbido, duro con duro. E quindi con il morbido Carounn va bene una 1724, con un gin rigoroso una tonica con molto chinino, come l’italiana J. Gasco, giusta, ad esempio, per il gin cuneese Bordiga”.
La luna di miele tra italiani e gin è dunque nel pieno.
Certo, non siamo ancora ai livelli degli inglesi che hanno visto inaugurare a Gatwick la distilleria The Nicholas Culpeper dentro l’aeroporto (tanto guida il pilota), ma certo è che l’onda sta montando. Un’onda fatta di ricerca e qualità. Perché il primo passo per bere responsabilmente, è bere poco. Ma bene.
Luca Iaccarino
27 maggio 2016
credito fotografico: flickr/randyconnolly