Uno dei proverbi più famosi è che il riso nasce nell'acqua e muore nel vino. Viene ripetuto spesso, per fondare i più diversi abbinamenti enologici. La versatilità di questo ingrediente è fuori discussione e, come molti primi piatti, si abbina in modo eccellente ai tesori delle cantine italiane. Se non che la prima parte del proverbio viene data quasi per scontata. Come se fosse naturale che il riso, una pianta acquatica proveniente dall'Asia ma acclimatata alle nostre latitudini, incontrasse sempre in Pianura Padana, grazie alla propria rusticità, le condizioni ideali per accestire, crescere, maturare e dare frutto. Non è esattamente così.
Se questo cereale si è conquistato un posto importante nella dieta mediterranea, insediandosi pian piano in alcune aree dell'Europa meridionale, lo si deve alla disponibilità della risorsa idrica, che il cambiamento climatico mette drammaticamente in discussione da alcuni anni. Il 2022, come si sa, è stato l'annus horribilis incorrendo una delle siccità più devastanti del secolo. Il protrarsi della carenza idrica ha limitato semine e raccolti di riso nelle aree di Novara, Pavia e Milano, le più colpite dalla riduzione delle portate dei canali irrigui scavati per portare l'acqua del Po in Lombardia. Dopo le bonifiche medievali dei monaci cistercensi, che anticiparono la diffusione dell'agricoltura, poi promossa dagli Sforza nel ducato di Milano, la costruzione del canale Cavour servì proprio a questo ma, fin dall'Ottocento, si pose il problema di rinforzare il flusso con l'acqua proveniente dal Lago Maggiore. Oggi tale sistema circolatorio, fatto di centinaia di migliaia di chilometri di canali, che innerva le campagne tra Piemonte e Lombardia, non è più efficiente e si studia come rafforzarlo.
La siccità svuota intanto i nostri piatti, permettendo al prodotto d'importazione di erodere importanti quote di mercato. Da un lato, rischiamo di perdere le varietà storiche della nostra cucina (perché nessuno se la sente di investire in queste coltivazioni), dall'altro l'economia della risaia, basata anche sull'esportazione si restringe. L'Italia, che è leader europeo nella produzione di riso, di cui l'Unione è deficitaria, deve battere in ritirata rispetto ai giganti asiatici che, diversamente dal passato, si sono organizzati per rifornire i mercati di un cereale raffinato e confezionato, pronto cioè al consumo, e diversificato in modo tale da rispondere alle esigenze dell'intero mercato comunitario: mentre in passato Thailandia e Vietnam si limitavano a vendere in Europa del pessimo riso da contorno, ricco di impurità e rotture, oggi la loro industria si sta specializzando per offrire un prodotto competitivo con quello europeo. Altro discorso vale per il Basmati (ve ne abbiamo parlato qui), una varietà aromatica prodotta solo in India e Pakistan e praticamente unica nel suo genere. La chance della qualità Il valore della produzione di riso in Italia si aggira intorno ai 500 milioni di euro, il 92% del quale si concentra in Piemonte e Lombardia. Le aziende agricole sono 3700 e un centinaio le riserie. Il mercato italiano assorbe il 40% del prodotto lavorato in Italia e il consumo pro capite è di 7 chili. L'altalena dei prezzi, condizionata dalla disponibilità di prodotto, induce l'industria a importare molto riso dall'Asia, il cui punto debole è una bassa qualità (che però consente prezzi bassi): in Europa, per difendere la biodiversità e la salute dei consumatori, sono vietati, per esempio, pesticidi che in Asia si utilizzano abitualmente, come il triciclazolo, accusato di essere cancerogeno. Il controllo del commercio delle materie prime, d'altronde, si basa sul prezzo e l'unica chance per gli italiani è dunque difendere alcune nicchie di alta qualità, come i risi da risotto. Tuttavia, non tutta la nostra produzione è adatta a questa preparazione: per quanto il 50% della superficie risicola nazionale sia ancora investito a risi lunghi e medi, il 30% è occupato da varietà tonde, destinate all'industria dolciaria e dirette all'esportazione in Europa. Per difendere il Made in Italy, invece, bisogna valorizzare le varietà destinate ai primi piatti della nostra tradizione culinaria.
Una volta il risotto si faceva con il Carnaroli a Pavia (e prima ancora con l'Arborio), con il Vialone Nano tra Mantova e Verona, con il Sant'Andrea a Vercelli. Oggi si fa con decine di altre varietà, spesso senza saperlo. Lo consente la legge del mercato interno: ogni anno si selezionano risi che, per resa e caratteristiche organolettiche, sono simili a Carnaroli, Arborio e Vialone Nano, ma anche a Sant'Andrea, Roma-Baldo e Ribe e che possono essere venduti con i nomi dei "capostipiti" di categoria. La creazione delle nuove tipologie punta alla maggiore resa agraria (generosità della pannocchia e resistenza agli eventi atmosferici, alle erbe infestanti e ad altro ancora) e a migliorare il comportamento del riso ai fornelli, che dipende dalle caratteristiche del chicco. Il più gettonato si chiama Caravaggio. Gli ultimi nati? GranCavour, Incanto e Cartesio. Non si trovano sugli scaffali con questi nomi, perché conviene mescolarli al Carnaroli e chiamarli con questo nome molto noto; per acquistare invece il Carnaroli in purezza bisogna scegliere confezioni con la dicitura "classico". lo stesso Vale per i gruppi Arborio, Sant'Andrea, Roma-Baldo, Ribe e Vialone Nano: Gran parte delle confezioni con questi nomi contengono appunto risi "similari" come l'Araldo, il Sunrose, il Diva o il CL44, anch'essi selezionati per funzionare in cucina e nei campi. Si possono infine vendere tutte le varietà anche come miscele, ma bisogna chiamarle Lungo A (risotti), Lungo B (contorni), Medio (preparazioni varie) e Tondo o Originario (dolci).
Da quando il riso Venere è entrato nella scuderia di marchi rinomati, come Scotti, nei supermercati è un proliferare di scatole di riso nero e di pasta a base di di farina di riso nero. Oggi, in realtà, Venere è un marchio registrato e viene prodotto da un ristrettissimo numero di risicoltori vercellesi e oristanesi, ma stanno avanzando altri risi dal pericarpo colorato, come l'aromatico Ebano, analogamente organizzato in filiera. Più di nicchia il Gioiello, che ha una quantità straordinaria di pigmento ed è ricco di composti polifenolici. Poi ci sono tante altre tipologie di risi rossi oppure viola, che aiutano a creare sfiziosi piatti policromi. Da citare, infine, lo Zizania o riso selvaggio, di colore bruno: pur non essendo un riso vero e proprio (deriva da una pianta acquatica iperproteica, che non appartiene alla categoria dei risi), viene utilizzato come se lo fosse. Quest'evoluzione della ricerca verso le varietà pigmentate è propiziata dal mercato, che ha portato a selezionare anche risi da sushi e aromatici totalmente made in Italy.
Oggi rappresentano un patrimonio storico e naturalistico, ma anticamente le grange vercellesi erano granai (dal francese antico granche, granaio appunto), ovvero i terreni che circondavano i monasteri cistercensi. Nel Medioevo I monaci si dedicarono a dissodare le campagne nella pianura padana occidentale, portandovi la coltivazione del riso per la prima volta: Utilizzavano metodi e strutture tanto innovative sul piano agrario ed edilizio che questi impianti continuano a produrre a oltre mille anni di distanza. Strutturati come un cortile circondato da stalle e abitazioni, oggi sono cascine agricole e location per cerimonie. Una delle più note è l'abbazia di Lucedio, fondata nel 1123, avvantaggiata dalla presenza di molti fontanili. Di questa ricchezza naturale permangono numerose tracce. Non soltanto un ecosistema tutelato dalle norme sulla biodiversità, ma anche parchi naturali come il Bosco della Partecipanza, tra Trino e Crescentino. Un patrimonio che troviamo anche in Lombardia, dove l'abbazia di Morimondo, sulla riva destra del naviglio di Bereguardo (alle porte di Milano), fu il cuore delle bonifiche che permisero l'introduzione della risicoltura. Ma, per restare nel Vercellese, va ricordato che proprio quest'anno la Grangia di Montarucco festeggia i cent'anni di conduzione delle famiglie Dellarole e Busto, che continuano a coltivare riso con l'inventiva che animava i monaci: Andrea Vecco Dellarole ha fatto di Montarucco un centro di formazione droni per l'agricoltura di precisione.
Paolo Viana,
gennaio 2024