Seguici su Facebook Seguici su Instagram

Ricordi di un’antica Romagna

News ed EventiRicordi di un’antica Romagna

Storie di cucina: gli ottimi cappelletti di magro, qualche piccolo dispetto dell’azdora e un appetito illimitato nei bei racconti del tempo che fu

Condividi

191308Sarà l’età, sarà la stagione o le Feste che stanno arrivando ma, ammetto, il mio rapporto con il brodo è cambiato. Mai troppo amato in passato, relegato ai giorni natalizi e bevuto in minime quantità al grido di “più tortellini e meno brodo”, come facevano i miei figli da bambini. Adesso tutto si è capovolto e lo apprezzo nella forma e nella sostanza di un ricco e corroborante alimento, fatto naturalmente con dell’ottima carne e con tutte le regole del caso. Da bere così ma, meglio ancora, arricchire con della pasta fresca all’uovo: maltagliati, quadrucci, tagliolini o i romagnoli patacucci, strichetti, passatelli, la minestra nel sacchetto imolese, la spoja lorda e i cappelletti, in particolare quelli di magro. Già, direte, perché non cito il tortellino? Perché di questo padrone delle Feste si parla sempre, ma dove l’Emilia finisce e inizia la Romagna la musica cambia e la pasta ripiena si chiama cappelletto, distinguendosi dal cugino emiliano per un involucro più grosso, con abbondante farcia, che dimostra opulenza e ribadisce, ancora una volta, che emiliani e romagnoli, pur uniti geograficamente, sono due popoli diversi.


Insieme alle tante varianti territoriali dei cappelletti di grasso, dove il ripieno di carne varia tra Romagna occidentale e orientale e anche il condimento, ne esiste una di magro che è la più antica (prima citazione scritta del 1811) in cui si fa viva la cultura pastorale e contadina e il ripieno è una delicata miscela di formaggi. Erano questi i cappelletti che si preparavano la Vigilia per il giorno dopo, senza carne. Nel “compenso o battuto”, ossia nel ripieno, entravano uova, noce moscata, parmigiano grattugiato, ricotta e un formaggio non maturo come il raviggiolo o lo squacquerone. Formare i “caplèt” era un lavoro corale, bisognava fare in fretta perché la sfoglia non seccasse, poi un panno di lino li copriva in attesa di finire nel brodo misto di manzo e cappone il giorno dopo. In seconda istanza, la sera di Natale o il giorno di Santo Stefano, quelli rimasti da cuocere, dopo l’obbligato passaggio nel brodo, venivano scolati e conditi con un ragù di rigaglie del pollame usato per il brodo stesso. Poteva anche capitare che a qualcuno, non casualmente, nel piatto finisse un “caplitaz”, un cappellettaccio, tre volte più grosso del normale e il cui ripieno era formato da sola pasta o conteneva un grano di pepe o un chicco di mais. A pilotare tutto era l’azdòra che, sorniona, mandava messaggi e solo chi li riceveva poteva interpretarli. Una volta terminata la preparazione dei cappelletti, in molte case contadine, con un lungo e sottile spiedino, si prelevava un caplèt, detto il “sintiröl”, che la persona più anziana abbrustoliva al fuoco del camino e poi mangiava: era un sacrificio sull’altare degli dei della casa, l’arola. Di questo rito si hanno notizie ancora nel 1952.


Poi la famiglia andava a Messa e il giorno di Natale si faceva grande festa. Lo descrive nel 1881 il prefetto di Forlì: “presso ogni famiglia si fa una minestra di pasta con il ripieno di ricotta che chiamasi cappelletti. L’avidità di tale minestra è così generale che di tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggior quantità e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500”. Certo, la fame era tanta e il Natale uno solo, ma la prelibatezza di questa minestra è rimasta inalterata nel tempo. Adelmo Masotti, autore nel 1996 del vocabolario Romagnolo-italiano e credo buon giocatore a carte, diceva: “a ës e caplèt uns dis mai d’nò”: ad assi e cappelletti non si dice mai di no. E io, che non gioco a carte, mi dedicherò solo a questa minestra romagnola, sicura che renderà godurioso il mio Natale. Sempre che non mi capiti un “caplitaz”.

Novembre 2021, Storie di cucina raccontate dal direttore, di Laura Maragliano, ritratto di Gian Marco Folcolini, foto del piatto di Francesca Moscheni, in cucina Aura Basso

Abbina il tuo piatto a