Perché Livorno ha scelto la triglia come portabandiera della sua cultura gastronomica? Perché questo è un pesce dalla mille virtù: le sue carni bianche e sode, il suo sapore raffinato ma deciso la rendono ideale per la cottura nella densa salsa di pomodoro che assimila e restituisce all’assaggio l’intenso profumo di mare rilasciato nel sugo.
Prelibatezze storiche
Già i Romani dell’antica Roma avevano imparato ad apprezzare le qualità delle triglie: le facevano arrivare dai caldi mari del Mediterraneo meridionale, convinti che qui la loro polpa poteva raggiungere il top del sapore, preferendo già allora quelle di scoglio che costavano cifre favolose: sembra addirittura che una cesta colma di questi pesci costasse quanto uno schiavo. Prelibatezze destinate naturalmente a banchetti imperiali. Lo stesso Apicio le cita nel suo “De Re Coquinaria” suggerendo di cucinarle a fuoco lento con olio, cipolle e garum, la salsa di pesce prediletta dai Romani.
Anche in epoche più recenti la triglia ha avuto illustri estimatori, come il maestro Martino da Como, cuoco e gastronomo del ‘400, il quale consiglia, per preservarne le carni delicate, di lavarla in acqua salata ed estrarne solo il fegatello attraverso la bocca, lasciando intatte le viscere.
Parola d’intenditore
Ancora oggi gli intenditori suggeriscono di attenersi a quelle regole. Non a caso chiamano le triglie “beccacce di mare” e le consumano integralmente perché considerano le viscere un bocconcino altrettanto prelibato della polpa. Abbiamo chiesto ulteriori lumi a Massimo Tessieri, executive chef e docente di laboratorio di enogastronomia presso l’Istituto Aberghiero G. Matteotti di Pisa. Come scegliere le triglie più adatte? “Certamente sono da preferire quelle di scoglio, perché vivono in acque alte e per il tipo di alimentazione, molto varia. Il loro caratteristico colore rosso le distingue dalle triglie di sabbia, di un’arancione chiaro o grigiastre” – ribadisce Tessieri.
La ricetta originale delle triglie alla livornese risale alla seconda metà del ‘500: creata dalla comunità ebraica, che aveva potuto integrarsi senza problemi nella città, fu offerta ai cittadini in segno di gratitudine per la loro generosa accoglienza e da allora è rimasta un punto fermo della gastronomia di Livorno. Pur contutte le varianti che spesso caratterizzano i piatti della tradizione regionale: chi abbonda nell’uso dell’aglio, chi omette il sedano o aggiunge al soffritto una buona dose di cipolla, chi ancora sostituisce il pomodoro fresco con i pelati o la passata, variante questa che richiede una cottura della salsa più lunga per renderla abbastanza ristretta. Tutti d’accordo invece nel cucinare il pesce intero, senza sfilettarlo: è proprio la polpa aderente alla lisca la parte più saporita.
Due versioni a confronto
Per il sistema di cottura invece esistono due scuole di pensiero: si può scegliere di preparare un piatto dal gusto più deciso procedendo alla preliminare frittura dei pesci, o optare per una formula più leggera cuocendoli direttamente nella salsa. In un modo o nell’altro con le fette di pane che sempre accompagnano il piatto si può fare una goduriosa “scarpetta”. Qual è il tempo di cottura ottimale? “Bastano pochi minuti a fiamma non troppo alta, togliendole dal fuoco non appena la pinna dorsale, se tirata delicatamente, tende a staccarsi dalla spina centrale. – spiega Massimo Tessieri - Meglio se non sono completamente cotte: la cottura terminerà grazie al calore residuo della salsa”. Si possono cucinare in anticipo? “Anzi, è preferibile, per consentire alle fibre della carne di rilassarsi, e assorbire meglio l’intingolo, insaporendosi ulteriormente. Al momento di servirle occorrerà poi ‘rigenerarle’ facendole riassorbire il calore a fiamma molto bassa o in forno a 90°C, sempre a recipiente coperto”.