In Italia, la storia dell'olivo inizia con i Greci, che lo portarono sulla nostra penisola nel primo millennio avanti Cristo, e prosegue con i Romani, a cui dobbiamo una capillare opera di diffusione in tutto il territorio nazionale. Questo in estrema sintesi. Ai tempi, le olive erano olive: chi le mangiava, chi le utilizzava per ricavare l'olio, senza stare a fare troppe differenze tra le varie tipologie. Poi le strade si sono separate, come anche le coltivazioni, e si sono avviate ricerche per ottenere nuove cultivar, destinate soprattutto al dorato condimento: oggi in Italia le olive da olio raggiungono oltre il 90% della produzione totale. Quelle da mensa dunque non ci interessano? Tutt'altro. La questione, come spesso accade, è economica e riguarda tutti i luoghi: l'olio, nella sua indispensabilità, frutta di più. Ma le carnose drupe da tavola ci vedono comunque al terzo posto nel mercato europeo, dopo Grecia e Spagna, e sono presenti in tante varietà che nemmeno si riesce a contarle: tra antiche (dalla Pidicuddara siciliana alla Racioppa della Basilicata), tradizionali (dalla Giaraffa alla Nocellara) e di nuova generazione (come la recentissima cultivar Rosso di Sicilia) superano le 500 tipologie. Considerando che negli altri Paesi vanno dalle 30 alle 150, possiamo sicuramente attribuirci un primato di biodiversità, che la dice lunga sulla tradizione olivicola dello Stivale. Un luogo baciato dal sole, a volte anche troppo... Ma come dicono i siciliani, per avere olive buone da mangiare, vale la regola delle "S": sassi, sole, silenzio. E noi non ce li facciamo mancare.
Come nasce un'oliva da mensa?
Le drupe devono avere determinate caratteristiche e subire un particolare trattamento. Innanzitutto vengono privilegiate le varietà con un rapporto polpa-nocciolo che veda la prima in vantaggio, poi, subito dopo la raccolta, inizia il processo di lavorazione. Diversamente dagli altri frutti, quelli dell'olivo non possono essere colti dall'albero e subito mangiati: per diventare commestibili vanno "addolciti", ovvero in buona parte privati dell'oleuropeina, una sostanza di gusto molto amaro. Il processo può avvenire secondo due tecniche: quella tradizionale prevede il riposo in una salamoia di acqua e sale per circa 12 mesi; mentre il procedimento più moderno contempla, prima l'immersione in acqua e soda e poi, dopo un abbondante risciacquo, la concia in acqua e sale (in tutto ci vogliono tre mesi). A questo punto sono pronte per essere mangiate, così come sono ma anche infornate, schiacciate e conciate con peperoncino, aglio e quant'altro.
Poche ma buone
Seppur perdenti in percentuale rispetto a quelle da olio, nel Belpaese (e in in tutta l'area mediterranea), le olive da mensa restano al centro della tradizione gastronomica, anche nelle versioni più avanguardiste: pensiamo al carciofo ripieno di Taggiasche dello chef Romano Mascheroni (ristorante Armani di Milano) oppure al godurioso risotto di Rosanna Marziale (Le Colonne Restaurant di Caserta) che le utilizza in polvere. Nella cucina regionale, poi, si apre un mondo: fatto di caponate, conigli alla ligure, paste alla puttanesca, insalate di cereali, olive farcite all'ascolana, pani, focacce, pizze. In queste pagine, trovate cinque ricette esclusive, che prendono ispirazione dalla cucina tradizionale e vanno un po' oltre, con tocchi creativi e spunti gourmand.
Cristiana Cassé
giugno 2023