Come il consumo di cibo, anche la sua rinuncia ha un valore sacrale e comunitario in molte comunità e religioni. Lo Zoroastrismo lo proibisce, mentre l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam hanno giorni fissi di digiuno, spesso associati alla ricerca di chiarezza di visione, preghiera e introspezione. Vi sono evidenze della pratica del digiuno già nella Chiesa cristiana antica quando, a partire dal Il secolo, erano previsti due giorni di digiuno in preparazione della Pasqua.
La Chiesa, nell’Alto Medioevo, estenderà la sua influenza sulla società europea e disciplinerà ogni fase della vita quotidiana delle persone regolamentando la scansione del tempo e le abitudini alimentari, individuando per ogni stagione specifici giorni di digiuno. Nei secoli successivi, si definì l’astinenza specificando alimenti e bevande proibiti e indicando la misura e la natura di quelli consentiti. La lista degli alimenti proibiti comprendeva prima di tutto la carne e grassi animali come strutto e lardo; non erano concessi neanche latticini e i tuorli. La cucina del periodo quaresimale e della Vigilia era basata per lo più su pane, polenta, ortaggi, legumi e pesce. Nel regno di Carlo Magno, chi trasgrediva il precetto del digiuno mangiando carne veniva punito con la pena di morte.
Con l’arrivo di nuovi cibi dalle Americhe, nacquero accesi dibattiti sulla loro “catalogazione” in termini di permissività o meno nei periodi di precetto. Molte le discussioni sul caffè, ma certamente l’alimento che ha creato maggiori dispute teologiche nel XVII secolo è stato il cioccolato, che allora veniva servito caldo, come corroborante, in tazza. Non c’è come un divieto per amplificare la ricerca del piacere gustativo.
La lunga diatriba tra teologi è stata poi brillantemente risolta nel 1669 dal Cardinal Francesco Maria Brancaccio – evidentemente un acceso sostenitore del Cibo degli Dei – con l’escamotage di dichiarare il cioccolato in tazza una bevanda, per cui concesso, visto che “liquidum non frangit ieiunum” ossia un liquido non rompe il digiuno!
Secondo la consuetudine, il “mangiar di magro” prevedeva l’astensione non soltanto dai grassi e dai dolci ricchi ma anche, secondo una teologia tarata sul popolo, dalle carni degli animali presenti sull’arca di Noè – il che, in teoria, avrebbe compreso tutto il mondo animale, se si vuol dar atto alla Bibbia. Ma anche qui si riuscirono a trovare diversi espedienti per rispettare le proibizioni senza subire eccessive privazioni: per esempio, sia il ricettario dell’Ordine delle Suore Dimesse di Udine sia Giuseppina Perusini Antonini di Rocca Bernarda, una delle prime donne del vino in Friuli che nel 1962 scrisse “Mangiare e bere friulano”, la prima raccolta in stampa delle tradizioni enogastronomiche della regione, riportano la ricetta per una zuppa della Vigilia a base di asparagi, piselli e rane: l’uso delle rane in un piatto di Vigilia fa capire che non erano considerate carne, bensì pesce e quindi rispettose del precetto di astinenza.
Le privazioni culinarie non dovevano piacere a nessuno, neanche ai monaci: nei ricettari medievali i frati fanno distinzione tra frittelle non quaresimali (fritte nel lardo) e frittelle quaresimali (fritte nell’olio, qui la ricetta delle frittelle di castagne). Nel tardo Medioevo, il burro viene riammesso tra i grassi di magro in alternativa all'olio, come pure si sdoganano i latticini. Anche le lumache erano considerate “di magro”, pare grazie a Papa Paolo V, il quale ne era ghiotto, che davanti a un loro piatto sentenziò: “Estate pisces in aeternum!”, cioè “Pesce estivo per sempre” dichiarando così che le lumache erano pesce, e quindi permesse.
Vicino Torino, i frati di un convento per aggirare il periodo di magro, bararono e crearono una ricetta che lavorava la carne del coniglio come se fosse tonno in conserva, portando alla nascita del tonno di coniglio (la ricetta qui) Curiosi e involuti ragionamenti portarono a consentire il castoro, forse perché vive anche in acqua, e tutti gli uccelli acquatici, tra cui folaghe, anatre selvatiche, germani reali e fischioni: erano considerati “di magro” perché volavano e non erano sull’Arca e perché si nutrono di pesci e molluschi. Così oltre agli uccelli acquatici furono esonerati mammiferi marini quali delfini e balene, molluschi, rane e altri anfibi acquatici. Un’interpretazione un poco ardita, forse, ma in ogni caso molto gustosa e ricordata da Pellegrino Artusi che, nella ricetta 275 “Folaghe in Umido” afferma che la folaga si potrebbe chiamare uccello pesce, visto che la Chiesa permette di cibarsene nei giorni magri, senza infrangere il precetto. Nella ricetta 103, Artusi cita gli spaghetti di Quaresima romagnoli, conditi con zucchero, noci, pan grattato e spezie e nel volume illustra un intero Pranzo della Quaresima e cita molti altri piatti “di magro”.
Non sfuggono alla ricerca di scappatoie ed espedienti per aggirare i paletti del digiuno neanche i tortellini bolognesi: decisamente un alimento da giorno di grasso, con il loro ripieno di carne e cotti in brodo di carne, furono subito proposti anche in versione “di magro”: la carne veniva sostituita da solo formaggio e spezie, o da pesce o da rane, oppure da semplici ortaggi come la cipolla, e li si cuoceva in acqua salata o brodo di verdure. A Napoli c’è la tipica frittata di scammaro napoletana – il cui nome vuol essere l’opposto del vocabolo cammarare, cioè "“mangiare di grasso” – i cui ingredienti sono capperi, pinoli, acciughe e olive nere con cui condire gli spaghetti per poi farli dorare in padella finché non si forma la crosticina croccante. Gli stessi ingredienti si usano anche per condire la pasta allo scammaro. Sempre ghiotti, anche se rispettosi del precetto, i liguri buridda e cappon magro a base di pane aromatizzato con olio e aceto, su cui vengono sovrapposti verdure e pesci di vario tipo (trovate una variazione della ricetta qui), come anche lo stoccafisso in zimino genovese; tipica di magro la pasta con le sarde siciliana, arricchita con finocchietto selvatico, zafferano, uvette e pinoli.
In Veneto troviamo il baccalà alla cappuccina (sopra) e quello alla vicentina, dove il pesce viene passato in padella con spezie e aromi e servito con la polenta. Baccalà anche in Molise, con la ricetta che lo vede “mollicato”, e in Abruzzo (“arracanato”), gratinato con olio, sale, aglio, prezzemolo, pangrattato e origano (nella versione molisana, ci sono anche peperoni sott’aceto e uvetta, assenti in quella abruzzese).
Digiuno non vuol dire sacrificio, perché non mancano i dolci. In Toscana, a Firenze, si prepara il pan di ramerino, fatto con farina impastata con olio, rosmarino, uva passa e zibibbo, e i biscotti quaresimali a forma di lettera dell’alfabeto (inventati dalle suore, si pensava che le lettere avrebbero contribuito a diffondere la parola del Vangelo, foto sotto), realizzati con soli albumi (niente tuorli), zucchero e cacao in polvere. Anche il miele è tra i cibi concessi, e il maritozzo, tipico dolce di Quaresima ottocentesco, ne era ricco, insieme a pinoli e canditi, come pure erano concessi pani dolci, frittelle, ciambelle e fichi.
Quasi quasi, la cucina italiana dev'esser grata al precetto di "mangiar di magro".
Francesca Tagliabue
marzo 2024
Foto biscotti quaresimali courtesy of Maestro AMPI Paolo Sacchetti - Pasticceria Nuovo Mondo, Prato