Nonostante il nome erratamente toponimico, il sugo alla genovese, propriamente detta La Genovese, è un piatto indiscutibilmente campano, diffuso in tutto il Regno di Napoli da molti secoli, fin dal periodo aragonese (XV secolo). Oggi la Genovese è parte del patrimonio culturale personale di ogni famiglia.
Dice il mitico Eduardo de Filippo “il Lacierto ’a genuvese / ll’i ’a tirà cu e ’ccutenelle, / vino ianco, alla francese, / e nce vònno ’e ttagliarelle. / Fuoco lento, lento assaie, / ca si ’o piezzo piglia sotto, / lass’ o’ sta’ ca quann’è cotto / siente ’o fieto pure ’a ccà”.
La Genovese è una preparazione piuttosto semplice, ma richiede pazienza e il giusto tempo affinché il condimento cuocia alla perfezione. Jeanne Caròla Francesconi definiva la Genovese “superba e solitaria” nel suo libro La cucina napoletana (1965) dato alle stampe dopo circa cento anni da quello storico di Ippolito Cavalcanti, nobile napoletano e letterato italiano esperto di cucina (Cucina teorico-pratica, 1837). Il ricettario della Francesconi riporta piatti tramandati solo per tradizione orale o raccolti presso amici e conoscenti, oltre a quelli per i quali fa riferimento al Cavalcanti (che menziona la Genovese chiamandola raguetto) e all’opera di Vincenzo Corrado, cuoco e letterato italiano, “Cucina napoletana” (1832).
Il mistero di un nome
Sull'origine di questo, esistono varie e mirabolanti teorie: alcuni ritengono lo si debba ai gestori di locande in zona porto a Napoli; originari della città di Genova, usavano cucinare la carne in sugo con tante cipolle, un sugo cui i napoletani avrebbero poi aggiunto la pasta. Da qui il nome Genovese.
Altri più romanticamente parlano di un monzù di Ginevra (Genève, dunque Genevese o Genovese) che introdusse questa variante della Soupe d’Oignon in qualche cucina aristocratica del tempo. Il termine monsù, poi divenuto monzù - da monsieur, “signore” in francese - indicava nei secoli XVIII e XIX un capo cuoco partenopeo delle case aristocratiche in Campania esperto della cucina francese.
La pasta! Ma quale?
Per tradizione la risposta è una sola: “candele spezzate”, cioè gli ziti, i maccheroni che si usavano nei matrimoni (zita vuol dire sposa), spezzati a mano, chiamati anche mezzani. Essenziale che i pezzetti di pasta che restano durante questa operazione (da fare sopra una ciotola) finiscano nella pentola della carne, perché contribuiranno, scuocendosi, ad amalgamare ulteriormente il piatto. Se non avete gli ziti, ricordate che è sempre consigliabile una pasta grossa, quindi bene anche paccheri, rigatoni, mezzanelli, penne. In ogni caso, ricordate, la ricetta storica vuole d’obbligo pasta da forchetta e non da cucchiaio.
La carne: cosa e come
La razza bovina che si alleva e si consuma in tutto il Meridione è la podolica. La parte giusta da usare è il “primo taglio di annecchia”, cioè la punta dello scamone (primo taglio, in napoletano) del vitello (annecchia oppure ‘o vaccariello); ma vanno anche bene lo scamone intero (colarda in napoletano) o il girello (lacerto in dialetto, foto sopra). Meno comune l’uso del gammuncello (muscolo dello stinco). Alcuni usano aggiungere al lacerto anche prosciutto o salame a dadini (foto sotto) o un pezzo di muscolo della zampa del maiale, detto “gallinella”. Secondo la ricetta antica, le carni vengono sottoposte a una rosolatura preliminare in grasso. Qualunque sia la carne che usate, quindi, sigillatela per qualche minuto, prima di aggiungere cipolle e carote.
La cipolla giusta
L’ideale è la cipolla ramata di Montoro in provincia di Avellino, diffusa in tutta la Campania, dalla forma un po’ schiacciata (foto sotto), perché ha una particolare fragranza pur essendo più dolce delle sue consorelle: la si può mangiare con il pane, insomma, alla moda contadina. Se non la trovate, va bene la ramata classica (no cipolle rosse o bianche). Per la Genovese il taglio dev’essere molto sottile per avere un sugo perfetto: la cottura a bassa intensità e prolungata consentirà alle cipolle di sfaldarsi, ottenendo così una purea cremosa, saporita e dolce al tempo stesso. Una volta tagliate le cipolle, immergetele in acqua con ghiaccio prima di procedere alla cottura. Qualunque ricetta seguiate, sappiate che la tradizione vuole che il peso delle cipolle sia almeno il doppio del peso della carne, per un sugo veramente ricco e goloso.
Sugo Genovese alla molisana
La Genovese molisana si rifà all’omonima pietanza napoletana. La gastronomia molisana ha subito diverse contaminazioni da quella campana, grazie ai rapporti interregionali stabiliti dai ceti medi che avevano occasione di frequentare il Regno di Napoli. La qualità della carne, anche se non di taglio pregiato, degli animali allevati negli pascoli molisani e la lunga e lenta cottura garantiscono la buona riuscita della Genovese molisana. La pasta anche qui vuole le “candele spezzate” (zitoni), ma anche i paccheri, trafile ideali con questo gradevolissimo sugo. Per sfruttare al massimo la bontà della carne, questa spesso viene tritata e, con l’aggiunta di altri ingredienti e un po’ di prezzemolo, confezionata in gustosissime polpette.
C’è anche la... finta Genovese
Detta anche Genovese fujuta, ripropone il gusto della Genovese originale ma è priva di carne. C’è chi la insaporisce con pezzetti di prosciutto crudo, facendolo rosolate in olio prima di aggiungere carota, sedano, tantissime cipolle a fettine sottili, poco sale e un pizzico di pepe e poca acqua per facilitare la riduzione delle cipolle in crema. Sempre a fuoco lento per un’ora e più. Con il sugo ottenuto si condisce una pasta rigorosamente corta (ma anche la polenta).
Francesca Tagliabue
ottobre 2022