Come in un teatro la scena si apre con tre protagonisti: un dolce enorme, un conte e un imperatore. Il primo si chiama “gateau o biscuit de Savoie”, il secondo è Amedeo VI (sempre di Savoia) e il terzo è Carlo di Lussemburgo o Carlo IV.
Le origini
Si racconta che il Conte, in tenuta di gala e a cavallo, offrì all’insigne ospite un enorme dolce raffigurante il castello di Chambery circondato da una corona di monti innevati con sopra il diadema imperiale. Quando questo sia avvenuto è un po’ meno chiaro. Poteva essere il 1348 quando il conte, poco più che bambino, ospitò Carlo di Lussemburgo, allora pretendente alla corona e di passaggio in Savoia, che diventato in seguito imperatore (1355), si sarebbe ricordato di quell’atto di vassallaggio. Oppure più tardi, nel 1365, per suggellare il legame con l’Impero e ringraziare Carlo IV che in quell’anno nominò Amedeo VI vicario imperiale, aprendo così ai Savoia un percorso che li porterà prima a diventare duchi e poi re. Fatto sta che le due storie, quella della dinastia sabauda e quella del gateau o biscuit, sono sempre state indissolubilmente legate e il caratteristico impasto spugnoso a base di “uova, zucaro e farina”, meglio conosciuto come pasta savoiarda, ha mantenuto due versioni, una in terra francese e una più famosa in terra piemontese.
Il savoiardo piemontese
Qui è diventato il savoiardo da tutti conosciuto: friabile, leggero e nutriente, appannaggio un tempo, o meglio ancora biscotto ufficiale (si direbbe oggi) dei piccoli eredi di Casa Savoia. L’impasto migliora e si evolve a partire dal ’700 consentendo al biscotto la fama attuale: i pasticcieri scoprono che, dividendo i tuorli dagli albumi e poi montandoli e unendoli separatamente al resto degli ingredienti, la pasta assume un aspetto più aereo. La ricetta così attualizzata viene trascritta anche da Alexandre Dumas, non solo romanziere ma anche fine gastronomo, nel suo Grand Dictionnaire de la cuisine (1873) che cita sia il biscotto di Savoia (da preparare con 12 uova), sia i savoiardi che suggerisce di fare con una pasta più leggera con le stesse quantità di zucchero, farina e fecola del cugino d’Oltralpe ma con 16 uova.
La versiona sarda, molisana, ligure e siciliana
I savoiardi seguono la dinastia sabauda ovunque vada e quindi si diffondono in Sardegna con una variante che prevede meno uova: i biscotti di Fonni lunghi e snelli mentre i pistoccus più larghi e corti. Prendono il nome di prestofatti in Molise e caporali in Liguria. In Sicilia i biscotti giungono durante la prima dominazione sabauda (1713 - 1720), reinterpretati dai pasticcieri dell’isola ancora con meno uova, rispetto alla versione sarda. Nel trapanese diventano saviarda, a Caltanissetta raffioli, biscuttina nell’ennese e in altre parti firrincuozzu. Un secolo dopo, il marchese Vincenzo Mortillaro descrive la variante sicula come: “dei pezzetti di pasta dolce e molto tenera fatta di farina, uova e zucchero che si mangiano tanto sciutti, quanto inzuppati nella cioccolata, nel vino o altro liquore spiritoso e si danno anche ai bambini quando si spoppano”. Ormai sono diventati famosi, piacciono anche a Cavour che ne è ghiotto; ma sono così sabaudi, nel bene e nel male, che Giuseppe Tommasi da Lampedusa, nel Gattopardo, fa dire a Don Ciccio Tumeo, sospeso tra il ricordo del vecchio regime borbonico e gli albori dell’unità d’Italia sotto i Savoia: “ora tutti Savoiardi sono! Ma io, i Savoiardi me li mangio col caffè, io! E tenendo fra il pollice e l’indice un biscotto fittizio lo inzuppa in una immaginaria tazza”.
Laura Maragliano
su Sale&Pepe di ottobre 2021