È una conserva piemontese che sa di vendemmia: a base di mosto, accompagna i formaggi e il sontuoso bollito misto
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Molti la chiamano "mostarda d'uva", ma il nome può trarre in inganno. Priva della piccantezza data dalla senape che caratterizza le mostarde preparate in altre regioni del nord, la cugnà è una specialità delle Langhe di antichissima memoria che tradizionalmente si preparava a partire da uno dei prodotti più tipici del territorio: l'uva nera, quella da vino. O, per meglio dire, il mosto ricavato dai grappoli d'uva dolcetto, barbera o nebbiolo lasciati sulle viti perché piccoli o troppo acerbi per la vinificazione, che venivano pigiati e cotti a lungo.
Così, a fine vendemmia sulla stufa o sul fuoco del camino veniva messo a bollire il pentolone di mosto, che deliziosamente spandeva il suo profumo in tutta la casa, e andava rimestato a lungo, schiumando spesso. Una volta ridotto, senza aggiungere zucchero, che per i contadini di allora era un ingrediente prezioso, si univano i frutti che la cascina forniva in autunno: mele renette o cotogne, pere martine o madernasse, fichi, nocciole, generalmente le tonde gentili di Langa. C'era chi metteva anche pezzetti di zucca, a seconda della tradizione familiare o, più verosimilmente, di ciò che era disponibile, fatto che spiega come le ricette della cugnà siano innumerevoli e tutte diverse tra loro. Pare infatti che il nome cognà (c'è chi la scrive così, ma si pronuncia cugnà) sia la contrazione di "quel c'un ha", ossia quello che si ha. Insomma, una ricetta di recupero, come insegna la saggia tradizione contadina del tempo che fu, quando nulla doveva andare sprecato.
Serviva per condire la polenta quotidiana e, mescolata alla neve fresca, poteva diventare addirittura una sorta di sorbetto. I più abbienti l'accostavano ai formaggi di Langa e al bollito di carni miste, il sontuoso piatto piemontese delle feste, insieme ad altri condimenti canonici (bagnèt verd e ross, miele, cren), due accostamenti che ancora oggi vengono proposti dai ristoranti di tradizione.