L’agnello è un alimento con un forte valore simbolico, antica vittima sacrificale, considerato tributo alla divinità. Oggi rimane un simbolo nelle celebrazioni di tutte le religioni monoteiste, e in linea con il suo status di emblema di purezza, nella tradizione gastronomica italiana per “agnello” si intende un piccolo della pecora sotto l’anno di età. Al giorno d’oggi si distingue tra agnello “da latte”, cioè alimentato esclusivamente a latte, massimo 3-4 settimane di vita (sotto i dieci chili) dalla carne tenera di colore rosa, e agnello tout court (detto maturo o bianco), parzialmente svezzato, che può arrivare fino a 10 settimane (max quattordici chili), carne saporita dal gusto intenso che è sempre meglio marinare prima di cuocere (una classica marinata prevede vino bianco secco, olio extravergine di oliva, aglio, bacche di ginepro schiacciate, rosmarino, alloro e timo). Nonostante sia protagonista di tante ricette del periodo pasquale, nell’ultimo ventennio per motivi etici e morali l’idea di mangiare un cucciolo ha urtato e urta la sensibilità di alcuni, con forti prese di posizione contrarie.
Come che sia, gli estimatori della carne di agnello si rifanno a una lunghissima tradizione che, in Italia ma anche in Irlanda e Gran Bretagna, raggiunge eccellenze invidiabili, tanto nell’allevamento quanto nella produzione. Questo ovino è infatti una materia prima speciale: la carne è leggera, tenera e molto saporita sebbene delicata, ricca di proteine facilmente digeribili. Dell’agnello si mangia tutto: pregiati sono tagli come la sella, il carré con le costolette e il cosciotto, ma anche la spalla, lo stinco, il collo e il petto entrano nelle nostre ricette di tradizione e non solo. Le costolette – che devono essere spesse almeno un centimetro altrimenti la carne in cottura diventa dura – sono versatili e gustose; possono essere marinate e cotte sulla piastra o in padella e anche impanate e fritte. Il recupero delle interiora, la coratella, è un classico del Lazio, dove viene allevata una prelibatezza come l’Abbacchio Romano Igp, cioè l’agnello da latte. Vantano importanti tradizioni in materia anche la Sardegna (Agnello di Sardegna Igp) e la fascia che va dall’Emilia all’Abruzzo (Agnello del Centro Italia Igp).
Come tutte le carni, anche in questo caso le migliori sono quelle di animali che hanno vissuto ben curati e liberi in spazi aperti. Fuori Italia, speciale menzione merita l’Agnello Irlandese, la cui carne certificata dal sapore dolce e delicato è il risultato di una rete di pratiche di allevamento tradizionali messe in atto dai produttori irlandesi nel totale rispetto della natura e in armonia con il territorio, in modo sostenibile. Con la stagione più lunga di crescita dell’erba in Europa, infatti, le ampie distese verdeggianti d’Irlanda garantiscono animali allevati in libertà e con un’alimentazione Grass Fed per 220 giorni l’anno.
Nel corso dei secoli sono sorte innumerevoli ricette regionali a celebrare questa eccellente materia prima. Molto antica e codificata dai pastori dell’Italia centrale la ricetta dello “scottadito”, un classico pasquale che si traduce in costolette cotte alla brace dopo una breve marinatura con olio, aglio e rosmarino, da mangiarsi con le mani (nomen omen). L’agnello al forno con patate è protagonista del pranzo pasquale in diverse regioni. In Umbria, lo scottadito viene accompagnato da una salsa di grasso di prosciutto tritato con spezie. Il Lunigiana, l’agnello si cuoce nel tipico fornetto locale, il testo, dove l’agnello a pezzi viene cotto con le patate di montagna. In Abruzzo, si prepara l’agnello “abbottonato”, una spalla disossata e farcita con pane, mandorle, uovo, parmigiano e prezzemolo; curiosamente, nelle terre intorno a l’Aquila già nell’Ottocento era presente un piatto simile – l’agnello “ammandorlato” – che usava le mandorle dell’altopiano di Navelli. In Puglia, l’animale si fa stufare nel “calderotto” di coccio o s’arrostisce allo spiedo (squero). La Sardegna offre due varianti di tradizione: l’agnello al limone, piatto pasquale per eccellenza, viene cotto in padella e ricoperto con una crema di uova, limone e sale; a Nuoro lo si prepara con i pomodori secchi e il finocchietto selvatico.
L’origine del nome dell’abbacchio laziale è incerta – si crede si faccia rifermento al “bacchio”, il bastone della mattanza, o forse il palo cui si legavano gli animali. Non così le sue caratteristiche: l’animale dev’essere lattante o aver appena cominciato a brucare. L’abbacchio si fa al forno, alla romana (con una salsa di rosmarino, aglio, peperoncino, filetti di acciuga e aceto) oppure “brodettato” con una salsa di tuorli d’uovo, limone, prezzemolo e maggiorana.
Sono tante le ricette regionali e di tradizione a base d’agnello perché la sua carne si presta a diversi tipi di preparazioni al forno, in padella, stufato e anche fritto. È una delle carni più consumate in tutto il bacino del Mediterraneo, molto presente nelle cucine del Nord Africa, in particolar modo in Marocco, e mediorientali.
Francesca Tagliabue
marzo 2024