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Pasta e patate

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Un connubio antico dalle origini popolane partenopee, apprezzato da cuochi e re, celebra la versatilità di due ingredienti semplici, che nel loro equilibrio accolgono a braccia aperte carne, pesce o formaggio

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Cosa c'è di più semplice di un piatto pasta e patate? Apparentemente nulla, però se cominciamo a considerare la storia della pasta e quella del tubero arrivato dall’America alla fine del ‘500, scriveremmo già due trattati separati. Una cosa certamente accomuna questi due alimenti, promessi sposi sin dal loro primo affaccio sulle tavole partenopee: hanno consentito il ripopolamento demografico dopo la grande peste del ‘600 ed evitato numerose altre carestie, dal Regno di Napoli a quella in Irlanda, tra il 1845 e il 1849. Oggi come ieri, il problema dell’approvvigionamento energetico degli uomini e della società nel suo complesso resta fondamentale, e sia la patata sia la pasta hanno sostanzialmente contribuito a risolverlo, trasformando i napoletani da mangiafoglie a mangia maccheroni.

Vincenzo Corrado, cuoco e organizzatore di banchetti a corte, nel 1773 cita per la prima volta la ricetta di “pasta e patate” ne Il Cuoco Galante, uno dei primi ricettari italiani, e dedica alla patata oltre 30 pagine, con 56 preparazioni e ben 26 salse, in un capitolo che finisce per diventare un libro nel libro, scelta strabiliante tanto è moderna, che l’autore spiega con l’esigenza di una alimentazione vegetariana.

La pasta e la patata base dunque di una cucina povera ma moderna, capace, come gran parte dei piatti della gastronomia napoletana, di fare a meno della carne. In genere la pasta usata è un insieme di formati misti, risultato dell’istinto di conservazione delle massaie, che mettevano via la pasta che avanzava tutta insieme. I 56 modi di usare le patate in cucina di Vincenzo Corrado dimostrano la versatilità della patata la quale, pur dotata di un sapore proprio, è essa stessa un incredibile esaltatore di sapore. Questa vocazione è il segreto della pasta e patate.

Cucina di desiderio e fantasia
Siamo in Italia, Paese che riverbera nel cibo tutta la mentalità del suo particolarismo anarcoide, forza e debolezza. Così la pasta e patate in realtà è un modo per mangiare mille altre cose.

La ricetta base da cui si parte, un soffritto di cipolla e sedano in olio di oliva o strutto (molto usato a Napoli fino al secondo Dopoguerra) è semplice: si aggiungono del pomodoro, le patate spellate a pezzi e un po’ d’acqua. Infine la pasta. Vincenzo Corrado parla anche di scorza di parmigiano, usanza che dura sino ai nostri giorni. In quella scorza di parmigiano c’è la testimonianza di quanto antichi siano i rapporti tra il Regno e l’Emilia Romagna, la sottolineatura della cucina di recupero, la vera essenza della cucina napoletana, ossia il non essere, a differenza di tutte le altre grandi tradizioni gastronomiche europee, una cucina di carne, ma una cucina di “desiderio di carne”.

Da qui nascono le versioni al formaggio: adesso è in uso il provolone del Monaco della Penisola Sorrentina, che con il piccante dovuto al caglio di capretto spezza la monotonia del piatto; poi, soprattutto in città, è dilagata la moda della provola, perché il fumé (smoky taste) è uno di quei gusti molto amati e cercati dai napoletani nei piatti. Le varianti del piatto diventano mille, a cominciare dall’aggiunta di pancetta “per dare più sapore”.

Una ricetta, tante versioni
Sostanzialmente la pasta e patate si divide in due grandi interpretazioni: quella di città, più asciutta, e quella di campagna, più minestra brodosa. Una distinzione di fondo che riguarda tutte le paste con i legumi e ortaggi (come il cavolfiore). In città si usa la forchetta, quella inventata da Re Ferdinando che aggiunse il quarto rebbio per mangiare gli spaghetti usando così per la pasta una posata tradizionalmente vocata alle carni. In campagna, il cucchiaio. Esiste poi una seconda distinzione tradizionale per l’inserimento di proteine animali: se in città e nelle zone interne si usa la pancetta, talvolta anche la salsiccia secca, in Costiera Amalfitana tipica è la pasta con totani e patate. Le trasformazioni non finiscono: nelle montagne irpine si aggiungono i funghi, in estate si preferisce il basilico al sedano. C’è la versione in bianco, senza pomodoro; se avanzata, la pasta può essere ripassata in padella il giorno dopo, oppure diventare una frittata di pasta e patate. Può anche trasformarsi, perché no, in un timballo in stile monzu cotto al forno, o in estate finire in teglia, sempre al forno, “arrecanata”, ossia con tanto origano fresco.

Dopo la fantasia delle massaie e dei cuochi di trattoria, un grande contributo alla evoluzione moderna del piatto è stato dato dalla cucina d’autore, ed ecco allora una tartare di gamberi crudi al posto della pancetta, come pure dalle pizzerie con le “frittatine di pasta e patate”. L’evoluzione finale è la famosa pasta e patate dello chef bistellato ischitano Nino di Costanzo che usa 35 formati di pasta cotti separatamente e cinque tipologie di patate, presentate in cinque modi diversi: patata gialla trentina a spuma con latte di bufala; patata cabbanese in cialdine croccanti; patata morella viola per cialdine viola; la quarantina per la zuppa e la Colfiorito, per la salsa.

Una cosa è certa: comunque la presentiate, pasta e patate è il modo migliore per strappare un sorriso a un commensale, che in questo piatto, comunque sia fatto, ricerca soprattutto equilibrio fra gli ingredienti.

di Luciano Pignataro
settembre 2022

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