Il riscaldamento globale è una realtà in atto. Gli scienziati auspicano che l'aumento della temperatura rimanga entro i 2 gradi, ma la media più probabile è quella di 3 gradi. 3 gradi in più rischiano di compromettere fortemente le coltivazioni, o almeno quelle maggiormente diffuse. È quanto emerge dall'ultimo rapporto su agricoltura e riscaldamento globale elaborato per l'International Food Policy Research Institute di Washington.
L'Italia e il Mediterraneo in genere, che già godono di un clima caldo, risultano particolarmente interessati al fenomeno. I raccolti di frumento, materia prima per il pane e soprattutto la pasta italiana, potrebbero subire un calo del 20 per cento.
Anche il raccolto di mais scenderebbe del 7 per cento per ogni grado in più di temperatura. A preoccupare, non sono tanto le coltivazioni di granturco riservate alle polente del nostro Nord Italia, medio-piccole anche se spesso di varietà pregiate. Il vero danno è a livello globale, visto che il mais viene impiegato nei mangimi destinati ai bovini. Se i mangimi costano di più anche il prezzo della carne aumenterà.
L'altro alimento che ora sfama mezzo mondo ed è destinato a diminuire sono i fagioli: ritenuti resistenti, in realtà mal sopportano il caldo che può far scendere la produttività anche del 25 per cento.
Cioccolato e caffè sono le altre macrocategorie a rischio. Già le piantagioni di cacao risultano ad oggi insufficienti a soddisfare la domanda del mercato, che sta aumentando con il diffondersi di nuove fasce middle class in Paesi come la Cina e l'India, dove il comfort food per eccellenza è sempre più richiesto. In più il caldo eccessivo potrebbe aumentare la traspirazione delle piante e la conseguente perdita di umidità, in Paesi come l'Africa già decisamente asciutti (Ghana, Nuova Guinea) rappresenterebbe un disastro. Stesso discorso per il caffè coltivato Africa e America Latina. Minori problemi invece per le piantagioni di caffè asiatiche.
E infine il vino. Bisognerà spostare i vigneti più a Nord per garantirsi climi adatti? Non è così semplice. Nella produzione di vino infatti il fattore climatico è in strettissima relazione con altitudine, sole, vento, composizione del terreno. Insomma, il Chianti se prodotto in Lombardia non sarebbe certo la stessa cosa. E ad avere enormi perdite saranno anche le grandi coltivazioni di Australia e California.
Per non parlare di insetti e funghi, che vengono tenuti sotto controllo dagli inverni rigidi ma che rischiano di esplodere in regimi caldi-umidi, dovuti anche all'aumento delle piogge primaverili. Può succedere come per la mosca olearia che quest'anno ha azzerato o quasi la produzione italiana di olio extravergine. Tutte queste ipotesi di rischio sono riportate anche sul quotidiano La Repubblica del 17 febbraio.
Che fare dunque? C'è chi dice che dobbiamo rassegnarci e pensare seriamente agli insetti come cibo del futuro, considerando che le stime Fao nel 2050 prevedono un aumento della popolazione mondiale dagli attuali 7 miliardi a circa 9.
In molti ci stanno lavorando. È il caso del Nordic Food Lab di Copenhagen, laboratorio di ricerca fondato da René Retzepi di cui l'head chef è l'italiano Roberto Fiore, che porta esempi come il gin di formiche o la salsa di cavallette. Per ora allevare insetti per mangiarli o servirli al ristorante, è ancora vietato per legge. Vedremo come va a finire.
Barbara Galli,
17 febbraio 2015