Estremamente gustoso, la pajata con i rigatoni è senza dubbio il piatto più rappresentativo della cucina di tradizione capitolina, sconosciuto a molti ma celebrato dagli estimatori
È il classico dei classici della cucina romanesca tradizionale - più rappresentativo, forse, della coda alla vaccinara o della coratella. Forse la ghiottoneria più famosa della cucina romana, la tipica pajata viene di norma servita con i rigatoni, come celebra Alberto Sordi nel film “Il Marchese del Grillo” (1981) in una famosa scena in cui Sordi porta a cena la bella Olimpia in una bettola di Roma per farle assaggiare i rigatoni con la pajata, scherzando sulla loro origine animale in quanto budella.
Perché la pagliata (più nota con il suo nome in romanesco, pajata) è l’intestino tenue del vitello da latte o del manzo (in versione più saporita). Il piatto richiede una preparazione lunga e accurata, che non tutti i ristoratori sono disposti a fare: per questo motivo, la pajata è oggi una prelibatezza rara e ricercata, da gustarsi nelle trattorie storiche della capitale.
La pagliata di solito è la base di un ricco sugo per la pasta, diventando così un ricco e sostanzioso piatto unico. Favoriti allo scopo i rigatoni che, grazie alla caratteristica filettatura, si rivelano ideali per trattenere il cremoso condimento.
Restano famosi i rigatoni con la “pajatella” di Aldo Fabrizi, rigorosissimo sulla qualità della pagliata che doveva essere “de vitella de latte appena nata”. Più legata alla tradizione la ricetta della “pagliata di bue in umido con rigatoni” del grande gastronomo Carnacina. A Roma ciascuno propone la sua ricetta, senza però discostarsi troppo dalla tradizione e con una bella grattugiata di pecorino, prima di servire.
L’intestino deve essere lavato ma non privato del “chimo” (la sostanza cremosa prodotta dalla digestione degli alimenti) e spellato con cura; si otterranno dei ‘cordoncini’ lunghi circa 20-25 cm. Si uniscono le estremità per non fare uscire il contenuto e si legano con una passata di refe bianco, in modo da ottenere dei veri e propri anelli che vengono soffritti in poco strutto od olio d'oliva insieme a una cipolla a fettine sottili, del sedano tagliuzzato, lardo o guanciale tritati, uno spicchietto d'aglio e un ciuffo di prezzemolo.
La pajata si fa rosolare e insaporire con sale e pepe, un bicchiere di vino bianco e, una volta evaporato, qualche cucchiaio di salsa al pomodoro e un pizzico di peperoncino. La carne viene cotta a lungo e a fuoco lento: in questo modo diventerà molto morbida e tenera.
Il piatto è un emblema della cucina di recupero popolare che non permetteva di buttare nulla dell’animale e che, come in tanti altri casi, regala una vera e propria leccornia. Adolfo Giaquinto, famoso cuoco romano della fine dell'Ottocento, fu un grande estimatore di questo piatto.
Durante il periodo della Roma papalina (756-1870), i tagli meno pregiati e le interiora del bovino erano vendute per poco o nulla ai popolani; in particolare, verso la fine del ‘700 è a Testaccio che si concentra la tradizione della pajata. A questo quartiere, dove a fine Ottocento sorgerà l’Antico Mattatoio di Testaccio, oggi sede del Museo di Arte Contemporanea di Roma (MACRO), è infatti legata la storia della pajata.
Qui venivano macellati i bovini destinati al consumo della città: gli operai che vi lavoravano venivano pagati con pochi soldi, oltre agli scarti o le frattaglie degli animali, dando origine alla cucina del quinto quarto romana. Così per necessità nacque la ricetta dei rigatoni con la pajata, trasformando al meglio una delle parti meno nobili dell’animale in un piatto sostanzioso e appetitoso.
Francesca Tagliabue
marzo 2025