A qualcuno in Toscana sarà capitato di sentirsi dire: “Un se’ bono neanche per fa’ la cioncia!”. Ossia sei una persona che non vale proprio niente, come la cioncia: un piatto poverissimo preparato con gli scarti della lavorazione della pelle. Fate finta di poter viaggiare nel tempo e andate indietro, indietro e indietro e atterrate in Valdinievole, vallata prima del Ducato di Lucca poi del Granducato di Toscana, quindi del Regno d’Italia e dal 1927 della provincia di Pistoia. Qui tra i suoi 11 comuni c’è Pescia, dove il piatto ha avuto origine.
L’economia pesciatina, conosciuta per la floricoltura e le cartiere, era in realtà un tempo sostenuta dalle numerose concerie (nel 1916 se ne contavano ancora sei): attività florida in molte parti della Toscana, ma che a Pescia si era particolarmente sviluppata grazie alla posizione della cittadina in prossimità degli itinerari di transumanza tra gli Appennini e la Maremma toscana. Già nella metà del ‘300 esisteva una corporazione di conciatori di pelli e di calzolai e verso la fine del ‘400 la qualifica di “conciaio” veniva apposta sui registri dei battesimi accanto al nome paterno. Tra i lavoratori delle concerie c’erano gli scortichini, il cui compito era di sgrassare e ripulire le pelli degli animali macellati dalle parti carnose e terminali (testina, coda, collo e altro), inutili per la concia.
Di necessità si fa virtù. Gli scarti recuperati e riuniti in sporte o balle erano la ricompensa del lavoro di scarnitura; portati a casa, diventavano, grazie all’ingegno e alla creatività delle donne, un piatto povero ma sostanzioso che, per assonanza con concia, è diventato cioncia: uno stufato da accompagnare con pane abbrustolito (se c’era). Oggi non è semplice gustarla, pochi i locali che la propongono, difficili da reperire gli ingredienti originari. Tuttavia si può preparare in versione semplificata e servirla in zuppierine monoporzione con pane abbrustolito, oppure, in modo più conviviale, all’interno di un pane tondo, ma è ottima anche con patate lesse schiacciate e condite con olio e sale. Una versione della cioncia, la besumèra o besumèera, esiste anche nella campagna cremonese, precisamente a Vescovato, terra di ambulanti e raccoglitori di pelle per le concerie. Probabilmente la ricetta ha viaggiato perché, checché se ne dica, la cioncia non varrà pure niente ma “l’è sempre stata bona”.
di Laura Maragliano
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