Storie di cucina raccontate dal direttore
Sono stata recentemente a Venezia per trovare mio figlio Oliviero. Passando lungo il Canal Grande non ho potuto fare a meno di dare uno sguardo alla Casetta Rossa o Casina delle Rose. Fateci caso, se vi capita, non potete sbagliare: è di fronte alla fondazione Guggenheim e vicino a palazzo Corner. Nel 1915 Gabriele D’Annunzio ebbe la possibilità di affittarla a poco prezzo, la casa era di proprietà del principe austriaco Fritz Hohenlohe, che per via della guerra doveva rifugiarsi in Svizzera.
Nell’accordo erano inclusi due domestici: il gondoliere e la cuoca. Il primo, Dante Fenzo, divenne a vita l’autista del Vate, la seconda, Albina Lucarelli Becevello, la sua amata Suor Intingola. Non fraintendete, nessun amore carnale, ma quasi filiale, quello del Poeta verso la sua cuoca, anche se più giovane di lui di quasi vent’anni.
Il destino di Albina parte tutto da un contratto d’affitto: nata in un paesino del trevigiano, adottata a otto anni da una famiglia di mezzadri, i Becevello, andata da adolescente a Venezia, a servizio, presso famiglie nobili. Quello con il Vate fu un lungo rapporto fatto di disponibilità, comprensione, condivisione e talvolta complicità; terminato con la morte di D’Annunzio e raccontato da un nutrito epistolario, oggi conservato al Vittoriale. I biglietti che il poeta scriveva alla cuoca non si limitavano alla richiesta di piatti ben precisi ma testimoniavano affetto e gratitudine, talvolta anche in maniera tangibile, ossia mille lire per un pasticcio di fegato chiesto a ore impossibili o 500 lire per una colazione particolarmente succulenta o dolcetti goduriosi, scusandosi per averla svegliata nel cuore della notte: “Mia cara Albina so che a quest’ora sei tutt’ora in piedi, e me ne dolgo. Il disordine della mia vita senza orario non deve turbare il tuo riposo. Io mi contento di tutto. Ma queste tarzette di pasta sono squisitissime”. Altre volte gli ordini erano un po’ più perentori: “Cara Albina poiché sono sempre disubbidito e sempre costretto a mangiare ciò che non voglio, ti do quest’ordine. Da oggi in poi, ogni giorno, fra le tre e le quattro del pomeriggio dev’essere pronto, per me solo, vitello freddo con salsa o senza. Voglio sapere il ripostiglio dove lo serberai, e andrò io stesso a prendermelo quando avrò fame”. Lei lo chiamava “paròn” lui Suor Intingola, Suor Ghiottizia, Suor Indulgenza Plenaria. Arrivati nel 1921 nella villa del Vittoriale, D’Annunzio le fece arredare una bellissima cucina, la chiamava “il regno del fuoco”: ampia, luminosa, con mensole, rastrelliere, tavoli robusti e, come segno di modernità, anche una splendida ghiacciaia. E Albina, che abitava nell’ultimo piano sottotetto, ogni mattina, anche se era stata svegliata nel cuore della notte per cucinare, prendeva servizio e preparava i pasti per le 25 persone circa che vivevano al Vittoriale, tra domestici, amici e amanti del Vate. Poi il primo marzo del 1938 con la morte del Poeta tutto finisce: basta pranzi a tutte le ore, basta biglietti, basta affetto, basta genio e sregolatezza, basta notti insonni a cucinare e basta soldi. Albina decide di tornare a casa. Con il denaro accumulato negli anni aveva comprato il podere a mezzadria dov’era cresciuta e dato in gestione al fratello, invalido di guerra, amico di D’Annunzio e beneficiario lui stesso di regalie da parte del Poeta.
Al rientro si trovò di fronte a un’amara sorpresa: il fratello aveva ipotecato la terra e dissipato il patrimonio. Albina, rimasta nubile, fu costretta a ritirarsi in una casa di riposo di Brescia morendo nel 1940 dimenticata. Una vita passata in cucina, nutrice di uno dei più grandi poeti italiani e sorella devota di un Giovanni irriconoscente.
La pazienza delle donne non ha mai fine.