Cerali (meglio se integrali), tanta verdura e frutta (anche secca), una dose contenuta di proteine (pesce, carne, uova, formaggio, legumi). Per condire, olio extravergine d’oliva.
Questa è la dieta mediterranea. Così, tra una bruschetta al pomodoro e una pasta e fagioli, mangiavano un tempo poveri e contadini, mentre i ricchi, ancora ignari delle malattie da benessere, si ingozzavano di carni, grassi e dolciumi inarrivabili per le tasche dei meno abbienti. Oggi la situazione si è ribaltata e sono proprio chef più blasonati a proporre, nei loro costosi ristoranti, una cucina improntata alla misura, alla genuinità. Persino le futuristiche tecniche di cottura del terzo millennio (da quella sottovuoto alla disidratazione in forno lento) sono nate, di fatto, per non stravolgere il valore organolettico dei prodotti e mantenerli più integri possibile.
Il primo a scoprire il valore del regime alimentare “mediterraneo” è stato, negli anni Cinquanta, il fisiologo americano Ancel Keys: grazie al suo studio, che evidenziava una scarsa incidenza di malattie cardiovascolari nelle regioni del sud Italia, per la prima volta ci si concentrò sullo stretto legame tra alimentazione e salute. Da allora la dieta mediterranea è stata oggetto di continua ricerca. Nel 1992 gli americani l’hanno utilizzata come base per costruire il grafico della cosiddetta piramide alimentare, nel 2010 l’Unesco l’ha dichiarata patrimonio culturale immateriale dell’umanità e nel 2012 è diventata tema centrale di un importante forum annuale. La quarta edizione, che si è conclusa ieri a Imperia, ha evidenziato il valore di questa tradizione alimentare che, come una sorta di file rouge, unisce tutti i popoli del Bacino e, soprattutto, ha messo in luce quelli che dovranno essere i passi futuri in tema di economia. Per l’Italia in particolare la dieta mediterranea è un affare che si misura in miliardi di euro. Due i punti salienti in tema di valorizzazione: la creazione di un brand che la identifichi in modo chiaro e il potenziamento del turismo enogastronomico. Non basta la semplice degustazione nell’azienda agricola, i visitatori, gli stranieri in testa, devono poter entrare nei luoghi di produzione, assistere alla lavorazione e partecipare a corsi di cucina ed educazione alimentare. In modo da portarsi a casa un pezzettino di quello che a molti di noi, nel mettere insieme un pranzo, viene del tutto spontaneo.
Cristiana Cassé
17 novembre 2014