Onigiri, uramaki e hosomaki, tutti belli e freschi, appena preparati oppure addirittura fatti al momento sotto gli occhi dei clienti: difficile resistere a queste delizie stile jap quando si è al supermercato a fare la spesa o quando si esce fuori a cena. E quando si pensa di nutrirsi con qualcosa di sano, leggero e anche (meglio ancora) sostenibile, Ma è davvero così? E cosa c’è da sapere per fare una buona scelta?
Riso cotto e pesce crudo: quando si pensa al sushi si pensa a una ricetta semplice, genuina e sana. Ma non è propriamente così, soprattutto per nigiri e uramaki. E basta scorrere l’elenco degli ingredienti per accorgersi di come siano usati diversi tipi di conservanti (riconoscibili dalla lettera E seguita da una cifra compresa tra 200 e 299) e spesso anche coloranti (E100-E199) e stabilizzanti (E400-E499). Ma a cosa servono? I conservanti aiutano a preservare più a lungo il sushi, fungono da antibatterici e favoriscono la fermentazione. Alcuni sono innocui (come l’acido acetico E260 e l’acido citrico E330), altri possono creare fastidi, soprattutto se assunti in quantità elevate. Come i solfiti (E220-228), che possono provare emicrania, orticaria, nausea e abbassamento della pressione in soggetti ipersensibili. Diverso è il caso dei coloranti o comunque delle sostanze usate per modificare e abbellire il colore di pesci e crostacei, i cosiddetti coadiuvanti (come l’acqua ossigenata). La legge consente i coloranti in alcuni casi (se non sono già stati usati nei singoli ingredienti) e non mette limiti ai coadiuvanti perché non ne resta traccia nell’alimento al momento del consumo.
Se per i risotti scegliere la varietà giusta di riso è fondamentale, nel caso del sushi non è così. Difatti ne vengono usate più di una, come si può notare osservando i chicchi utilizzati che spesso hanno forma e grandezza non omogenee. Semplicemente il riso destinato alla preparazione del sushi deve avere due requisiti precisi: deve contenere poco amido e avere un colore bianco cangiante. Caratteristiche che si ottengono grazie a una particolare lavorazione, che però lo “raffina”, privandolo si parte dei suoi principi nutrizionali. Il valore nutrizionale del sushi non viene risollevato nemmeno dall’aggiunta del pesce a causa dell’obbligo di trattare il pesce crudo con l’abbattitore di temperatura per ragioni sanitarie (ne parliamo più avanti, ndr). “Purtroppo il freddo intenso “cuoce” gli Omega 3 e quindi il valore delle crudité si perde” spiega il nutrizionista Ciro Vestita.
Inutile cercare l’indicazione sulla provenienza del pesce sulle etichette del sushi venduto confezionato. È un’informazione non richiesta nel caso venga utilizzato come ingrediente mentre è obbligatoria per i prodotti ittici confezionati e sfusi venduti nei mercati ittici o in pescheria. Eppure si tratta di un’informazione importante sia in chiave di sostenibilità sia di sicurezza e qualità. Infatti il pesce pescato nel territorio della Ue ha regole più restrittive rispetto a quello che arriva da altre parti del mondo. Inoltre dire tonno o salmone è limitativo: nel primo caso il rinomato tonno rosso è ben più pregiato e costo del popolare tonno a pinna gialla, così come il salmone selvaggio dell’Alaska è molto più caro e raro di quello allevato in Norvegia.
Il sushi è una preparazione delicata, che richiede abilità, tempo e rispetto di numerose norme di igiene e sicurezza alimentare. E non sempre questo accade, come attestano i tanti casi di cronaca di persone colpite da intossicazione alimentare causata da un eccesso di istamina e attribuita alla cattiva conservazione del pesce servito nei sushi restaurant. Il sushi deve essere realizzato con ingredienti freschissimi e genuini, e in particolare con pesce crudo abbattuto (ossia congelato) per eliminare le eventuali larve dell’Anisakis, un parassita comune nel pesce e che, se ingerito, provoca problemi gastro-intestinali. Per questo la normativa europea obbliga i ristoratori a congelare (per almeno 96 ore a -18 gradi) tutto il pesce che viene servito crudo o non completamente cotto. Non è detto, però, che tutti i ristoranti effettuino sempre questo procedimento: ad esempio, un locale che lavora molto e con poco personale avrà difficoltà a far passare quintali di pesce nell’abbattitore. Inoltre, anche se abbattimento c’è stato, il pesce può essere stato tenuto sui banchi di lavorazione troppo a lungo, e così può aver sviluppato una carica microbica capace di provocare forme di vomito e diarrea.
Al grande successo del sushi, soprattutto nella ristorazione, ha sicuramente contribuito la diffusione della formula “all you can eat”, che propone un prezzo fisso allettante indipendentemente da quello che si mangia. Vero è che spesso questi ristoratori ricaricano i prezzi di altri prodotti (come le bevande), ma comunque il messaggio che passa è chiaro: il sushi costa poco. Non è proprio così, come abbiamo visto finora. Meglio quindi mangiare il sushi solo in posti seri. Come riconoscerli? Igiene e pulizia a parte, occhio al prezzo medio: non dovrebbe essere inferiore a 30 euro al kg, sostengono gli esperti.
Manuela Soressi,
febbraio 2024