Plinio lo considerava «ad omne luxus ingenium natus» (nato per ogni tipologia di lusso), per Seneca era un ghiottone, corruttore del suo tempo: di certo, questo ricco cittadino Romano fu l’epitome del gourmand al tempo di Tiberio (I secolo a.C.)
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Andando molto indietro nel tempo (più di duemila anni), la prima figura che si possa considerare un vero grande della gastronomia è quella di Marco Gavio Apicio. Era considerato – così lo descrivono i documenti dell’epoca) un amante dello sfarzo e del lusso, una raffinata buona forchetta – un gourmand, si direbbe oggi. Ricchissimo in una Roma di ricchi e potenti, amico di Mecenate e dell’imperatore Tiberio, Marco Gavio Apicio, gastronomo, cuoco e scrittore romano, visse a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Apicio – che si considera il primo ad aver raccolto le ricette della sua epoca – costituisce oggi la principale fonte sulla cucina dell'Antica Roma.
Le fonti Marco Gavio Apicio stesso fu il soggetto della celebre opera oggi perduta, Del lusso di Apicio, del grammatico greco Apione. Le testimonianze sulla vita di M. Gavius Apicius provengono in parte da importanti fonti coeve o quasi contemporanee, in parte filtrate attraverso la sopra citata opera di Apione, il cui scopo era presumibilmente quello di spiegare i nomi e le origini dei cibi di lusso, soprattutto quelli aneddoticamente legati ad Apicio.
L’opera Durante un periodo che va dal III al IV secolo d.C., venne compilata una raccolta di ricette sotto il suo nome, il De re coquinaria (L'arte culinaria, letteralmente Quanto riguarda la cucina). Dalle ricette e dai loro ingredienti esotici (come, per esempio, lingue di fenicottero oppure il silfio, spezia pregiata ricavata dalla radice di una pianta ora considerata estinta, che cresceva solamente a Cirene, attuale Shahat, in Libia orientale) si conferma l’appartenenza di Apicio alle classi più ricche. L’intero De re coquinaria a partire dal Trecento è suddiviso in dieci libri, con titoli in greco, suddivisi con una distribuzione quasi moderna. Troviamo infatti Libro I. Epimeles (L'esperto in cucina), Libro II. Sarcoptes (Le carni) Libro III. Cepuros (Gli ortaggi) Libro IV. Pandecter (L’Enciclopedia) Libro V. Ospreon (Dei legumi) Libro VI. Aeropetes (I volatili) Libro VII. Polyteles (Vivande prelibate) Libro VIII. Tetrapus (I quadrupedi) Libro IX. Thalassa (Il mare) Libro X. Halieus (Il pescatore), ma si suppone che l’opera originale – raccolta da Apicio stesso– fosse composta da solo due volumi, uno dedicato alla cucina in generale e l’altro alle salse (foto sopra) poi condensati in una solo libro contenente ca. 468 ricette.
Curiosità e aneddoti
Cavoli che snob! Plinio il Vecchio, nella sua Storia naturale riferisce che Druso, figlio dell’Imperatore Tiberio, fu convinto da Apicio a non mangiarecymae, cioè cime o germogli dicavolo, perché erano alimento per la sola gente plebea e considerasse invece ‘superbo’ il sapore della lingua di fenicottero. Sempre Plinio scrive che Apicio nutriva i suoi maiali con fichi secchi e piccole quantità di mosto dolce mulsum (vino mielato) per insaporirne la carne, prima di farli macellare.
Storie di triglie… Seneca, nelle sue Lettere a Lucilio, scrive che l’Imperatore Tiberio una volta vide al mercato una grossa, magnifica triglia e scommise che l'avrebbero comprata Apicio o Publio Ottavio. A questo punto, entrambi gli uomini iniziarono a fare offerte per la triglia, facendone alzare molto il prezzo… alla fine la acquistò Ottavio, che si ritrovò con un grosso pesce… costosissimo. Sempre parlando di triglie, Plinio il Vecchio, nella sua Storia naturale, racconta che Apicio ritenesse necessario, per migliorarne ulteriormente il sapore, ‘affogare’ le triglie in un bagno di salsa di pesce a base di.. triglia, prima di cuocerle.
…e di gamberetti Apicio viveva a Minturno (Lazio). Avendo sentito parlare della vantata grandezza e dolcezza dei gamberetti pescati vicino alle attuali coste libiche, il gourmand Apicio requisì una galea (nave) con equipaggio e si diresse alla volta dell’odierna Libia: una volta arrivato, alla vista dei gamberetti offerti dai pescatori locali accorsi con le loro barchette, rimase molto deluso, li confrontò alle ottime aragoste a cui era abituato nella sua villa, fece voltare la barca e ritornò a Minturno “senza nemmeno scendere a terra”.
Un povero ricco Sebbene Seneca gli riconoscesse di aver “proclamato la scienza della cucina” - e anche di aver corrotto il secolo con il suo esempio di sprecone ghiottone – il filosofo racconta alla madre nel suo Consolatio ad Helviam che, dopo aver speso una fortuna di 100 milioni di sesterzi per i suoi banchetti e gozzoviglie (foto sopra), oltre a tutti i doni ricevuti dalla corte imperiale, fatti i conti Apicio scoprisse con angoscia che gli erano rimasti “solo” 10 milioni di sesterzi: per paura di dover vivere di stenti, nella fame più nera, decise di bere del veleno.