Un piatto profondamente radicato nella cultura della tradizione della città di Firenze, la trippa. Al punto che si racconta di quando il frate Girolamo Savonarola, nel 1497, fece bruciare molti libri prima e molte incomparabili opere d’arte poi, nel suo “falò delle vanità”: i fiorentini non dissero nulla. Quando però tentò di vietare la vendita nelle pubbliche piazze di trippa e lampredotto, se la presero a male, e nel giro di qualche mese finì sul rogo lui stesso. Nonostante la sua modestia di ingredienti e preparazione, oltre al Savonarola la trippa alla fiorentina ha incrociato personaggi significativi della Storia, come il grande Lorenzo de’ Medici, che era ghiotto di questo cibo da strada, morbido e saporito. Pare che condividesse questa passione gastronomica con Pico della Mirandola, con il quale gustava la povera ma gustosa trippa. Francesco Redi, medico e biologo alla corte di Cosimo III de’ Medici, sul finire del 1600 affermava che “il lampredotto di daino è vieppiù gentile, teneruccio e saporoso di qualsiasi voglia altra bestiaccia”; meno entusiasta Pellegrino Artusi, che scriveva “La trippa, comunque cucinata e condita, è sempre un piatto ordinario”. Che però piace a moltissimi.
Gli ingredienti
La trippa rientra nella categoria del cosiddetto “quinto quarto” (cioè l’insieme delle parti meno nobili dell’animale, comprese le frattaglie) e, pur essendo un piatto che - variamente preparato - si trova nella cucina di molte regioni italiane, a Firenze è una vera istituzione.
La trippa alla fiorentina utilizza specifiche parti dell’apparato digerente bovino, cioè due dei tre prestomaci: il rumine e il reticolo (a Firenze croce e cuffia; nella foto sotto, il reticolo), mentre lampredotto è il nome tutto toscano per indicare l’abomaso, il vero e proprio stomaco dell’animale. La trippa, prima della messa in vendita, subisce una serie di trattamenti e una precottura.
La ricetta classica della trippa alla fiorentina prevede solo pomodori maturi, cipolla, odori, parmigiano reggiano, olio d’oliva toscano, sale, pepe e “l’incomparabile trippa fiorentina (croce e cuffia) così bianca, così morbida”, tagliata a listarelle sottili (foto sotto). La vera trippa alla fiorentina “non deve essere brodosa” né vuole lunghe cotture, ma a fine preparazione, se ben riuscita, deve essere morbida e gustosa e la si deve “servire bollente, con altro parmigiano a parte”, secondo i dettami della tradizione.
L’introduzione del pomodoro nella ricetta toscana della trippa avvenne sicuramente dopo il Settecento, quando iniziarono i primi impieghi in cucina del frutto proveniente dalle Americhe. Oggi il pomodoro (fresco o in pelati) è diventato un ingrediente chiaveinsieme al formaggio parmigiano reggiano: non si ha documentazione di questa ultima aggiunta, se non l’accenno che lo scrittore Carlo Lorenzini “Collodi” fa ne Le avventure di Pinocchio, quando racconta la cena all’Osteria del Gambero Rosso, dove il Gatto divora ben «quattro porzioni di trippa, con burro e parmigiano». Oggi il parmigiano è parte della ricetta riconosciuta, il burro è un’aggiunta che fanno taluni, anche se i puristi dell’olio toscano rabbrividiscono al pensiero.
Sabato, trippa!
Trippa e lampredotto sono così compenetrati nella realtà̀ fiorentina che ancor oggi, negli anni duemila, sia nel centro storico sia nella periferia della città, si possono incontrare i caratteristici venditori di trippa, i trippai. Al tempo dei Medici già esisteva la Corporazione dei Trippai. Un mestiere storico e antico: nel 1792 vennero censiti nel Mercato Vecchio due trippai e dal 1793, nei Regolamenti per i mercati, si decretava che i macellai vendessero la trippa ai trippai, i soli con il permesso di “portar trippa alle case”. Il detto “sabato, trippa!” citato anche da Totò nel film 47 morto che parla derivava dal calendario della macellazione che avveniva prevalentemente il giovedì e il venerdì in previsione del pranzo della domenica: i tagli pregiati venivano acquistati dai signori, ai lavoratori rimanevano le frattaglie dello stomaco e la trippa: quest’ultima, essendo facilmente deperibile, doveva quindi essere consumata il sabato.
Trippai, precursori del moderno street food
Ancora oggi, questi cuochi da strada, raccontati da Vasco Pratolini nel suo famoso romanzo “Il Quartiere”, continuano a vendere trippa e lampredotto per la gioia dei fiorentini e dei turisti: in tutte le maggiori piazze di Firenze c’è il banchino del trippaio, come lo chiamano in città, ora come allora. Il quartiere simbolo della trippa è stato San Frediano, luogo di nascita della lavorazione della trippa da metà Ottocento, quando nacquero i primi macelli sull’attuale Lungarno Soderini: pare furono i trippai ambulanti di San Frediano a “inventare” il lampredotto, che cucinavano al mattino presto in grandi calderoni per poi portarlo a Firenze con il barroccio. Una volta, difatti, i trippai utilizzavano per vendere nelle piazze e nelle vie carretti o tricicli – prima a pedali, poi motorizzati – per arrivare agli odierni attrezzatissimi chioschi fissi o mobili, dove si vendono trippa e lampredotto da asporto o da gustare direttamente sul posto.
Le specialità
I trippai preparano gustosi piatti a base di trippa che vanno dalle ricette tradizionali, come la classica trippa alla fiorentina, il lampredotto all’inzimino (cumino) o semplicemente lesso, da gustare nel “semel” o “semelli” (come cita Lorenzini “Collodi” nel suo “Un romanzo in vapore”), cioè il panino, che viene per metà inzuppato nel brodo, e condito con sale, pepe: ecco, nella sua magnifica e golosa semplicità, il famoso panino al lampredotto (foto sopra) Molto più recente l’aggiunta della tipica salsa verde, che consiste in pane bagnato nell’aceto e strizzato, frullato con uovo sodo, prezzemolo, capperi, sale grosso e aglio. A Firenze e in tutta la regione, il lampredotto viene anche cucinato in minestre e risotti. Talvolta trovate anche l’insalata di trippa (trippa già pulita e lessata, condita con fagioli cannellini, cipolla, basilico, prezzemolo, sale, pepe, olio extravergine rigorosamente toscano, aceto e limone).
Trippa e zampa alla fiorentina
Le storiche osterie fiorentine in passato hanno sempre avuto nel menu questo piatto (foto sopra), così gustoso che a suo tempo il rinascimentale Pietro Aretino, poeta e scrittore, scriveva: «Io credo che l’autore di tal cose sia un fiorentino […] loro han capito tutti i punti con che la cocina invoglia lo svogliato». Oggi è assai meno comune degli altri, ma altrettanto semplice: alla trippa tagliata a liste o strisce assai sottili si aggiunge uno zampetto di vitello precedentemente lessato in acqua bollente, poi disossato e tagliato a quadretti. Il tutto, bagnato con un po’ di brodo, si serve su fette di pane casalingo abbrustolite.
Francesca Tagliabue
ottobre 2022