Natale quando arriva, arriva.
È proprio così, come diceva un vecchio slogan pubblicitario. Puntuale da sempre il giorno 25, non si scappa. Non è come Pasqua mai uguale, neppure nel mese. Natale è preciso, non fa sorprese. Siamo noi quasi sempre impreparati, colti nell'affanno degli ultimi ravioli da chiudere, degli auguri da fare, dal cappone da mettere in forno. Sospesi tra ricette di famiglia, osservanza della tradizione o tocchi creativi. Una volta era tutto più semplice e la tradizione più identitaria: c'erano piatti che si mangiavano solo in quel posto e solo quel giorno. Dove sono andati? Persi, dimenticati, non tramandati. Solo pochi oggi li preparano durante le feste e talvolta nessuno, ma in ogni caso sono da proteggere e riscoprire conoscendone l'origine. Di tutto questo ho parlato circa un mesetto fa con il mio collega Riccardo Lagorio, che me ne ha subito nominati alcuni: la bresciana bariloca (una sorta di panissa a base di riso, gallina, fagioli e funghi chiodini), il siculo lu pitirri (grumetti di farina di ceci in brodo di finocchietto selvatico e borragine, conditi con sale e olio appena si addensano), oppure lo stoccafisso pesarese cucinato in salmì con peperoni alle vinacce. Da parte mia non posso che citare i natalini o maccheroni di Natale in brodo, contesi tra Genova e Savona (nemiche anche in cucina), di cui le mie nonne hanno sempre parlato senza cucinarli. Penne lisce, lunghe circa 20 cm, da cuocere senza spezzarle. Così tipiche della festa da assumerne il nome, eredi nella foggia dei "macharoni" rinascimentali che venivano anche riempiti di carne e formaggio nonché frutto dell'antica arte pastaia ligure. I maccheroni di Natale sono citati dai dizionari genovesi di metà Ottocento (da Angelo Olivieri a Giovanni Casaccia), fino alla prima Guida Gastronomica d'Italia del Touring Club Italiano, nel 1931, che parla di una ricetta con la trippa già proposta nella Vera Cucina Genovese, scritta da Emanuele Rossi nel 1865. Infatti, le lunghe penne, non semplici da trangugiare, ma obbligatoriamente da tagliare nel piatto, nelle versioni più povere venivano cotte nel brodo di sole trippe o nel liquido della cottura della cima. Chi invece poteva permetterselo usava cappone o tacchino, che spesso andava a comprare a Novi Ligure (provincia amministrativa di Genova sino alla seconda metà dell'800) il 25 novembre in occasione della fiera di Santa Caterina di Alessandria. Gli animali vivi, una volta portati a casa, venivano sistemati sotto l'acquaio della cucina e ben rimpinzati sino a finire in pentola per il brodo e come secondo. Infine c'era la versione più ricca in assoluto, di sicura contaminazione emiliana: per questa gli anziani dicevano che il brodo, "deve cantare la terza", ossia essere di tre tipi di carne: come le tre voci perfettamente armonizzate dei "trallalèro", i canti popolari liguri composti da un tris di voci maschili che vanno da basso al falsetto. Una volta messa da parte la carne che sarebbe servita per il secondo, al brodo in ebollizione veniva aggiunta una buona quantità di trippe di vitello centopelli, prima soffritte con il mazzetto guarnito. Poi la salsiccia: nel capoluogo ligure gettata a tocchetti nel liquido, a Savona prima rosolata con rigaglie di pollo e pinoli. Infine il cardo gobbo, apporto tutto savonese al piatto, visti gli stretti rapporti con il mondo monferrino e langarolo: la verdura era prelessata e a Savona anche ripassata nel burro. Infine era la volta dei natalini, serviti poi spolverati di parmigiano. Il piatto, sicuramente sontuoso, oggi è stato pressoché dimenticato e il suo posto è stato soppiantato dai ravioli. Peccato, perché era una preparazione corale, conviviale e beneaugurante. I tocchetti di salsiccia volevano raffigurare antiche monete di rame.
Soldi dunque e non solo per i genovesi.
Laura Maragliano
Novembre 2022