Ci sono libri che fanno storia. Altri la rileggono e la riscrivono. Fra le montagne di Enotria curato da Stefano Del Lungo (edizioni Istituto Geografico Militare) e parte di una ricerca promossa dal Consorzio di Tutela della DOC riscrive la storia della viticoltura antica e al tempo stesso crea una storia nuova. Dopo aver sfogliato le pagine del volume vien da scrivere che siamo cresciuti solo con il mito degli antichi Greci, latori della civiltà del vino.
La Basilicata, in questo senso, cambia prospettiva alla viticoltura italiana e non solo. Le argute e convincenti considerazioni alla base di questa rivoluzione provengono dalla rilettura dei testi antichi, che servono da bussola per spostarsi nella foresta delle argomentazioni sommarie e delle errate interpretazioni che la lettura della storia spesso ci riserva. Si parte proprio dal senso di orizzonte, di contesto, per dimostrare la tesi una viticoltura preesistente all’impianto delle colonie greche. Bisogna avvicinarsi alla mentalità dei colonizzatori greci dall’VIII secolo a.C. con il concetto di paralìa, luogo sconosciuto ma ospitale che i navigatori ellenici trovano alla foce del fiume Agri, a cui corrisponde l’indefinito entroterra, eschatià. Sembra che Greci, dagli Argonauti in avanti, siano stati stimolati alla perlustrazione dell’eschatià dalla presenza di una biodiversità del tutto nuova che li condusse verso al Caucaso e le pendici dell’Hindukush (e all’inevitabile incontro/scontro con la civiltà persiana). Quella medesima curiosità nei confronti della pluralità di specie che ci raffigura, qualche secolo più tardi, Archestrato da Gela nella sua colossale opera dedicata soprattutto (ma non solo) all’elemento ittico. Peraltro la vite, nella prospettiva greca, si sviluppa in proporzione al grado di avanzamento culturale di chi la coltiva. Le comunità protostoriche dell’Appennino lucano, stimolate dai contatti con la civiltà micenea, si erano evolute nel tempo in produzioni specializzate come la metallurgia e la viticoltura. Quest’ultima esigeva sempre più l’impiego di una costante manodopera e una approfondita conoscenza delle specie da coltivare, dei cicli di produzione, delle tecniche di vendemmia, di vinificazione e conservazione del vino. Così gli Enotri appariranno progrediti ed esperti viticoltori agli occhi dei coloni greci sbarcati sulle coste tirreniche e ioniche dell’Italia meridionale nel corso dell’VIII secolo a.C. È una sorpresa anche per i viaggiatori raccontati da Omero, che si stanno spostando verso le terre d’occidente, dove il mare assume il colore del vino (in contrapposizione al Pòntos Áxeinos, il Mar Nero, dove la notte è già fonda), trovare quei popoli tramandati dalle leggende marinare micenee, pratici in agricoltura e nell’estrazione e lavorazione dei metalli. Erano infatti già presenti centri di accumulo delle varietà sviluppate nel corso del II millennio a.C.
Un’evidenza che smentisce l’arrivo nella Penisola delle viti dalle Alpi e dalla colonizzazione greca. “È evidente la loro sorpresa di trovarsi di fronte una civiltà evoluta, esperta produttrice di un bene primario come il vino, prezioso quanto i ricercati metalli, soprattutto il ferro e il rame. Attraverso la genetica, le fonti classiche trovano riscontro nelle varietà di vite, recuperate durante anni di esplorazione di vecchi vigneti nell’entroterra appenninico, con risultati sorprendenti” ha dichiarato Del Lungo durante la presentazione del libro a Viggiano (PZ). Il risultato complessivo è la creazione di una trama portante di nuovi concetti, fondati sull’esegesi critica delle fonti testuali, sui riscontri archeologici e sull’intreccio dei dati genetico-storici. La loro riscoperta rinnova l’interesse sulla fama raggiunta dall’etichetta di Lucanum, testimoniata da Catone il Censore agli inizi del II secolo a.C. La ricostruzione di quel passato non si snoda solo lungo l’analisi dei testi, ma avviene anche in situ, attraverso l’indagine genetica del patrimonio di biodiversità viticola, rappresentata a sua volta nella diversità paesaggistica e culturale. Emerge da queste considerazioni la grande potenzialità produttiva di un terroir fatto da Giosana, Zimellone bianco, Malvasia ad acino piccolo, Aglianico bianco o Ghiandara, Colatammurro, con l’aggiunta di Santa Sofia e Plavina (da fuori regione ma ugualmente tradizionali nonostante le apparenze) che farebbe della Basilicata, se opportunamente utilizzata, un paradiso per l’enoturismo e darebbe all’Alta Val d’Agri DOC (riconosciuta nel 2003) un’opportunità per uscire dall’oblio. Ma c’è da sottolineare un altro interessante aspetto: quello del legame tra viticoltura e le sedi di narrazioni e rappresentazioni mitiche sul vino come le grotte. Qui nascono e vivono figure mitologiche come il ciclope Polifemo o divinità orgiastiche come Dioniso e paesaggi rupestri con cavità utilizzate come cantine-grotta sono note nell’areale tra i due fiumi Agri e Sinni. Una concreta valorizzazione del Grottino di Roccanova DOC, marginata spesso a microeconomie familiari, passa inevitabilmente dalla valorizzazione culturale di quei luoghi. L’indagine condotta sul campo dagli archeologi Ada Preite e Antonio Affuso e contenuta nel testo apre anche questo nuovo orizzonte. Un testo quindi che non parla (solo) di vino, ma al quale dovrebbero ispirarsi tutti coloro che vogliono scrivere di vino. Che è, sostanzialmente, intreccio di culture.
Riccardo Lagorio
luglio 2023