Tra i volumi che conservo gelosamente c'è il Libro per la prima classe, stampato nel 1935 per conto della Libreria dello Stato e illustrato da Pio Pullini, artista dell'epoca che, nel 1930, ebbe l'incarico di realizzare i disegni per il Libro unico della terza elementare curato da Grazia Deledda, cui seguirono quelli per le prime due classi. Nel testo, che fotografa l'Italia del tempo, è contenuta una filastrocca ben illustrata che elenca i proverbi dedicati ai mesi, dove si legge che giugno ha "la falce in pugno" e luglio è "trebbiatore, quanta grazia del Signore!": gli unici due mesi "lavoratori" di tutto l'elenco. Poche parole per raccontare la raccolta del grano e sottolinearne l'importanza per l'economia di allora. La mietitura avveniva quando il chicco di frumento era già formato ma non del tutto maturo, diversamente sarebbe fuoriuscito dalla spiga durante la raccolta e il trasporto, poi si preparavano i covoni, pronti per il giorno di San Pietro in attesa della trebbiatrice. Quando questa non c'era il grano veniva battuto sull'aia, prima con buoi bendati (altrimenti avrebbero mangiato il raccolto) che, con gli zoccoli, separavano il grano dalla spiga e poi con il lavoro dell'uomo che batteva i chicchi con appositi bastoni. Giorni di grandi fatiche con uomini e donne chinati al sole per ore. Soltanto negli anni '60 la Pianura Padana e altre zone saranno solcate dalla Laverda rossa, una sorta di Ferrari agricola, di professione mietitrebbiatrice, in grado di eseguire entrambe le operazioni. Da quel momento il mondo contadino comincia a cambiare, non c'è più bisogno della collaborazione tra famiglie e la coralità di quei momenti che finivano con vere feste campestri viene meno, così come il cibo che durante mietitura e trebbiatura aveva grande importanza per ristorare e festeggiare. Per esempio, in Puglia, alle prime luci dell'alba agli uomini nei campi veniva dato pane con olio o pecorino oppure pane con salsiccia o frittata, verso le 10 arrivava la "stòzze" ossia baccalà fritto e altro pane con olio o formaggio e vino cotto con acqua e limone, per mezzogiorno pasta e fagioli, gnocchi con sugo di papera, coniglio con peperoni, patate ripiene con uova o ventricina. Alle cinque del pomeriggio era la volta di fagiolini con pomodoro, frittata di patate, pizza di farina di mais. In Piemonte si offrivano pomodori ripieni, lingua lessa, caponet, la minestra 'd bate 'l gran, con brodo, pastina e fegatini di pollo, necessaria per pulire la gola dalle polveri della trebbiatura, ma anche bonet e pesche ripiene. La ricchezza del pranzo dipendeva dall'entità del raccolto e dalla ricchezza del padrone. Piatto tipico del Viterbese era la caponata della mietitura, nulla a che vedere con la preparazione siciliana: era uno spezzatino di pollo portato a cottura con vino pomodori e peperoni piccanti. Non scherzavano neppure in Ciociaria con la minestra pastenese, pane, verdura, legumi e zampe di maiale. L'oca o la papera erano protagoniste, loro malgrado, di molti piatti e finivano in forno o diventavano ragù. Immancabili nelle Marche le tagliatelle tirate a mano, i tagliolini "pelosi" perché ruvidi, o i "maccheroni del batte" ossia della battitura con rigaglie di pollo e pecorino. Nelle campagne del Maceratese non mancava il ciammellotto rustico, da mangiare all'alba intinto nel vino o dolce merenda di ristoro. Un mondo contadino fatto di grande fatica ma anche di solidarietà, che Giovanni Pascoli celebra con saggezza nella Mietitura (Nuovi Poemetti, 1909): "E il grano è bello. Ma non fu soltanto la terra e il cielo fu la nostra mano. Chi prega è santo, ma chi fa, più santo”.
Laura Maragliano
giugno 2023