Siamo abituati a trascurarlo, oppure a studiarlo con attenzione per qualche minuto se ci troviamo in un nuovo locale o ristorante, ma non ci fermiamo certo a riflettere che la raison d'être del menu è da sempre collegata alla socialità del convivio, fin dalle sue origini: se c’è una lista di portate c’è un banchetto, e ci sono diversi commensali. Dove ci sono banchetti e commensali c’è una cultura, storica e geografica.
Con lo scorrere del tempo, i menu sono divenuti silenziosi testimoni di cambiamenti storici, sociali, culturali e gastronomici dei vari Paesi.
Origine del nome
Il termine “menu” (pronunciato menù), si trova scritto in italiano con o senza accento, anche se lo si dovrebbe scrivere senza, come si fa in Francia, perché è una parola francese che deriva dal lemma “minuta”, cioè la nota che nell'Ottocento il capo cuoco - o il maggiordomo - compilava quotidianamente per il padrone di casa in base alla disponibilità della dispensa e del mercato e alla propria creatività. Il menu, quindi, nasce come una selezione di pietanze che verranno servite in un pasto, e non come oggi lo intendiamo, cioè un elenco di tutte le pietanze disponibili, quello che oggi è la carta del ristorante.
L’evoluzione del menu
Si va molto indietro nel tempo per trovarne degli accenni: pare che ai tempi di Seneca (ca. 4 a.C.-65 d.C.) e Petronio (I secolo d.C.) ai banchetti romani venisse sottoposta all’attenzione dell’ospite d’onore una vera e propria lista delle vivande. Durante il Medioevo, una vaga idea di menu si ritrova nei poemetti recitati da giullari o servi durante il banchetto che descrivevano in versi le portate, al loro arrivo (foto sopra).
Il “Saporetto” di Simone Prudenzani (1370-1440) è una raccolta di sonetti rinascimentali che declinano una lista di cibarie.
Uno di questi poemi-menu è il “Ordine de le Imbandisone” che descrive il banchetto preparato per le spettacolari nozze tra Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Maria Sforza, dove attori e ballerini vestiti a tema davano vita a un vero e proprio “menu animato”, una scenografia organizzata da Leonardo da Vinci, al tempo al servizio di Ludovico il Moro.
Leonardo stesso, insieme all’amico Sandro Botticelli, conosciuto intorno al 1470 nella bottega del Verrocchio (erano entrambi apprendisti), si cimentò con il concetto di menu: apriranno insieme un’osteria chiamata “Le Tre rane da Leonardo e Sandro”, dove fuori dalla porta si trovava da una parte il menu, disegnato dal Botticelli per i clienti che non sapevano leggere, e dall’altra un menu scritto da destra verso sinistra da Leonardo (la scrittura speculare, un esempio nella foto sopra), che immaginiamo non raccogliesse molto seguito. Che sia per questo che l’impresa falli?
Un documento conservato all’Archivio di Stato di Milano, riporta le vivande servite durante un altro banchetto per conto della famiglia Sforza: in esso, per la prima volta nella storia, sono indicati anche i vini di accompagnamento delle varie portate.
Nel 1549 il cuoco Cristoforo di Messisbugo stampa a Ferrara “Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale” (foto sopra), che contiene i menu dettagliati di dieci banchetti che Ippolito d’Este offrì ai suoi ospiti. Nel 1570 Bartolomeo Scappi, cuoco del pontefice Pio V, elenca nella sua “Opera” in sei volumi, la lista delle vivande servite nei banchetti del Sommo Prelato. Il termine menu fu registrato per la prima volta in francese nel 1761 e indicava la lista delle vivande servite in un pranzo alla corte di un sovrano o di un grande nobile. Dalla seconda metà del Settecento, alberghi e locande mettevano in mostra appesa a una parete la lista di quanto la cucina offriva quel giorno: veniva chiamata écriteau.
Un importante cambiamento socio-gastronomico
Per arrivare al menu così come lo intendiamo oggi dobbiamo aspettare l’Ottocento, che segna il passaggio dal servizio alla francese al servizio alla russa. Fino ad allora, infatti, le portate nei banchetti e nelle cene formali europee venivano servite ancora come si faceva nel Medioevo e nel Rinascimento: seguendo quello che veniva chiamato “servizio alla francese”, i piatti e le scenografie culinarie dell'epoca venivano serviti tutti insieme sulla tavola, contemporaneamente (immagine sopra) – i commensali, seduti a un tavolo imbandito con una grande varietà di vivande, se le passavano tra di loro. Le proposte gastronomiche erano immediatamente visibili ai commensali ed eventuali dubbi riguardo alle preparazioni erano risolti da cartellini collocati accanto ai piatti che riportavano i nomi di ogni pietanza (sotto, il servizio alla francese).
Nel 1810 il principe russo Alexander Borisovich Kurakin, ambasciatore dello zar in Francia, mostrò ai suoi ospiti francesi un nuovo modo di servire a tavola, il “servizio alla russa”: i cibi vennero serviti uno per volta dai camerieri. Il diplomatico russo considerava il “servizio alla francese” usato fino ad allora troppo caotico, sprecone e oltretutto irrazionale, visto che i piatti caldi portati tutti insieme spesso si raffreddavano. Con il servizio alla russa il numero delle preparazioni era ridotto, i piatti arrivavano in tavola al giusto punto di cottura e ben caldi, il pasto cominciava ad acquisire una sua struttura, con una sequenza chiara e razionale e ogni commensale aveva così la possibilità di assaggiare al meglio tutte le pietanze preparate; all’ospite era lasciata solo la scelta della quantità o del cortese rifiuto (un esempio di menu di servizio alla russa sotto).
Il grande Marie Antoine Carême, noto come “il cuoco de re e il re dei cuochi” come esteta della cucina, apprezzò molto questo nuovo tipo di servizio, mentre altri suoi colleghi lo consideravano inconveniente perché non amplificava il lavoro creativo del cuoco. Fu un altro grande della cucina francese, Urbain Dubois, autore della Cuisine classique (1864), a imporre definitivamente il servizio alla russa nelle corti di tutta Europa e a dichiarare la necessità di offrire un’informazione scritta a riguardo: «La convenienza esige che i commensali siano informati sulla composizione del pranzo, affinché possano fissare la loro scelta e regolare il loro appetito. Bisognerà dunque che i maggiordomi ne distribuiscano sulla mensa una quantità sufficiente; uno per ogni due persone se il pranzo è numeroso».
Arriva il menu!
Con l'affermarsi del servizio alla russa, nacque così il menu odierno, ideale accessorio di ogni tavola conviviale, uno strumento attraverso il quale il commensale poteva farsi un'idea di che cosa lo aspettava e quindi quantificare oculatamente le porzioni che si sarebbe fatto servire.
Con l’adozione sempre più vasta del servizio alla russa da parte della società borghese, si diffuse l'abitudine di far trovare accanto al posto a tavola di ogni commensale un cartoncino a mano o a stampa che riportasse l’indicazione della successione delle portate che sarebbero state servite. Nello stesso periodo, molti grandi ristoranti e alberghi, destinati principalmente alla borghesia, per copiare l’eleganza del menu dei pranzi borghesi, cominciarono a offrire il servizio à la carte, dove i clienti potevano scegliere cosa mangiare (foto sotto). Nel corso del Novecento, la carta si diffuse gradualmente in tutti i livelli della ristorazione.
In Italia
L’elenco - solitamente diviso in tre o quattro portate con ogni portata servita in un piatto separato - cominciò a essere definito in Italia come “menu” ma, fino ai primi del Novecento, rimase scritto in francese.
Nel 1908, Vittorio Emanuele III - condannando i francesismi e i vocaboli francesi - con un’ordinanza reale impose sul cartoncino gastronomico la lingua italiana: alla corte dei Savoia l’italiano sostituì̀ il francese come lingua ufficiale di corte anche sui menu.
Il termine francese menu verrà così tradotto, oltre a “minuta”, anche in Nota, Lista delle vivande, Distinta (tre espressioni usate anche da Pellegrino Artusi), Lista o Distinta del pranzo (per tacere di nomi stravaganti come Gastrovivanda, Gastronota, Vivandaio, Godenda o perfino Rancio). La traduzione italiana "minuta" venne usata fino all'Unità d'Italia - ne sono esempio i ricettari napoletani dello scalco Vincenzo Corrado e del duca Ippolito Cavalcanti. Nel Dopoguerra, il termine menu prese piede sia per indicare la sequenza delle portate di un pasto sia la carta di un ristorante.
Il design del menu
All’inizio, il menu veniva scritto in bella calligrafia, una dote richiesta al maggiordomo o alla governante delle case signorili; in alternativa, nelle abitazioni borghesi il menu per i pranzi veniva redatto dalla padrona di casa (foto sopra). Con l’invenzione della stampa litografica nel 1793, si arriva alla versione stampata. I menu parigini originali sembrano fogli di quotidiano all'inizio del XIX secolo. Il menu è ornato da stemmi, simboli, immagini che celebrano la casata di chi invita o l’occasione del convivio. Con la Belle Époque si diffuse l’uso di arricchire i menu con illustrazioni e decori fatti da artisti (foto sotto).
Nel corso del tempo, il menu sarà sempre più dettagliato, riportando l’abbinamento dei vini, l’accompagnamento musicale di una serata, la presenza di un ospite di rilievo, fino ad arrivare ai sofisticati menu degustazione offerti dagli chef stellati, che si rivelano una mappa del percorso gustativo ed esperienziale che attende il commensale (foto in apertura, menu 2015, The Fat Duck, di Heston Blumenthal).
Francesca Tagliabue
marzo 2023