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La carbonata, spezzatino di montagna

News ed EventiPiaceriLa carbonata, spezzatino di montagna

I buoni sapori della tradizione valdostana si concentrano in questo piatto tipico che la lunga lenta cottura con vino e profumi rende irresistibile

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Carbonata, o carbonade, alla francese: sono molte le specialità regionali che hanno subito qualche contaminazione transalpina. Anche se è evidente che il nome di questo robusto spezzatino si riferisce al suo colore molto scuro, che ricorda appunto quello del carbone, forse non è un caso se un taglio di bue utilizzato un tempo in Francia per lunghe cotture veniva chiamato “charbonnade”. Con quella e altre parti più pregiate là si cucinavano piatti prelibati destinati a tavole nobili, mentre al di qua delle Alpi la carne è sempre stata un alimento raro che si consumava soprattutto in inverno, quando il clima freddo ne ritardava l’alterazione, o si conservava per portare in tavola nei giorni di festa.

La stessa carbonata, in origine, si cucinava con carne salata. L’utilizzo del sale per conservare i cibi era una vera manna per i montanari, finché non è stata introdotta la famigerata tassa sul sale: una vera batosta per il popolo che aveva dovuto rinunciare a utilizzare il prezioso prodotto. Nella valle del Lys, dove si era stabilita una comunità Walser, si adottarono altri sistemi per conservare la carne, come l’affumicatura, valida alternativa alla salagione, e si introdusse la cottura in “civet” (anche questo un termine di derivazione francese), con vino rosso, erbe e spezie, presto diffusa in tutta la regione: il piatto cucinato così poteva mantenersi anche per più giorni. Una formula magica che ha consentito di sostituire la carne salata con quella fresca, di cui la carbonata è un autorevole rappresentante.

Piccole variazioni locali

Oggi ogni vallata ha la sua interpretazione della ricetta: varianti che non ne cambiano l’essenza e che riguardano soprattutto la carne, di bue o di manzo, talvolta di vitello, ma sempre tagli di seconda scelta adatti alla lunga cottura. A Saint-Vincent viene ridotta a “frustoli”, ossia a listarelle sottilissime, che cuocendo si arricciano e alla fine si sciolgono in bocca, a Cervinia è tagliata a fettine, ma in genere si sceglie la porzionatura a tocchetti per mantenere una buona consistenza.

Due parole anche sul vino da utilizzare per la cottura: sicuramente rosso, di buona gradazione alcolica, meglio se “autoctono”, ma si può sconfinare anche nel vicino Piemonte con un Dolcetto o una buona Barbera. Sempre a Cervinia il vino talvolta si sostituisce con birra agra. Tutti d’accordo invece sull’immancabile polenta per accompagnare il piatto: semplice o condita, appena scodellata o grigliata, non c’è niente di meglio per raccogliere il gustoso sugo.

di Miriam Ferrari, in cucina Antonella Pavanello, foto di Michele Tabozzi

Parola di chef

Alla Locanda della Vecchia Miniera (Frazione Les Rey 11, Ollmont, Valle d’Aosta, tel. 016573414), una casa di montagna del ‘700 trasformata in piccola dimora di charme, siamo accolti dai due giovani patron: Valentina e Daniele. È lui che si occupa della cucina e ne approfittiamo per fargli qualche domanda.nnQual è la carne più adatta per la carbonata? nnDi solito si usa il manzo, ma io preferisco il vitello: la noce è il taglio che dà i risultati migliori, ma vanno bene anche reale e spalla.nnQuanto tempo per la marinatura? nnPer consentire alla carne di ammorbidirsi e assorbire i profumi ci vogliono dalle 8 alle 12 ore al fresco, in recipiente coperto.nnUn contorno adatto oltre alla polenta? nnLe patate: io le uso spesso perché rendono il piatto più delicato.

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