Si fa presto a dire Capodanno collocando i festeggiamenti in meno di ventiquattrore goderecce fatte di classici irrinunciabili come zampone e lenticchie e di invenzioni trasgressive. Se oggi tutto oggi avviene fra il cenone del 31 dicembre e il pranzo del 1° gennaio, la data in cui festeggiare l'anno nuovo non è sempre stata la stessa per tutti. Quella attuale risale al calendario Giuliano, in vigore già nella Roma del I secolo avanti Cristo, ma nel corso del tempo la sua collocazione è stata tutt'altro che uniforme e tranquilla e si è portata dietro abitudini costumi diversi, anche a tavola. Altro è festeggiare in pieno inverno, e altro è farlo in primavera, come avveniva in Gran Bretagna e Irlanda: fino al 1752, nelle isole britanniche Capodanno cadeva il 25 marzo, ricorrenza dell'Incarnazione e festa dell'Annunciazione, e prevalevano cibi simili a quelli della Pasqua, come la piccola cacciagione, la carne di agnello, i primi prodotti dei campi e la birra giovane. Ma questa è solo una delle tante variazioni sul tema. Fino al XVII secolo, per esempio, in Spagna, l'anno iniziava a Natale. Nell'Italia preunitaria, sulle soglie dell'epoca moderna erano in voga datazioni e costumi diversi da stato a stato: a Firenze e Pisa, si usava lo "stile dell'Incarnazione" (25 marzo), nelle terre del Nordovest lo "stile della Pasqua" (data mobile), a Nordest lo "stile veneto" (1° marzo), in Puglia e Calabria lo "stile bizantino" (1° settembre). Nel 1582, papa Gregorio XIII promulgò il calendario che porta il suo nome e che si usa oggi in Occidente; serviva a recuperare i giorni persi da quello Giuliano, ma non fu adottato dagli ortodossi, che così celebrano le feste 13 giorni dopo cattolici e protestanti.
Questa ricchezza, in cui si mescolano secolarità e religione, ci ha consegnato mille modi di celebrare il Capodanno in cucina. Ancora oggi, in Piemonte è d'obbligo il cappone lesso con una manciata di fieno, propiziatoria e aromatica, messa nell'acqua di cottura. L'uso dell'uva è retaggio delle Marche, dove si portava in processione come simbolo di abbondanza. La voglia di prosperità, a Napoli, significa sartù di riso, pesce bollito con la maionese, frittelle di baccalà e struffoli. Anche se sono ormai universali, non si possono scordare le origini emiliane dello zampone e delle paste ripiene e quelle lombarde del torrone e del panettone.
Chi ama questi temi troverà soddifazione all'"Academia Barilla" di Parma, dove il colto bibliotecario Giancarlo Gonizzi conserva una rara collezione di menu storici e 14.000 volumi della gastronomia italiana ed europea i cui si trovano preziose indicazioni per il cenone e per il pranzo di Capodanno. Fra questi tesori si scopre, per esempio, che Luigi Negri, autore nel 1931 del volume "La tavola in festa" firmato con lo pseudonimo Niger, invita a salutare l'anno nuovo con una "cena fredda" e "brindisi festosi": "Entrata di gamberi prigionieri, gelatina di pollo in fondo verde. Amaro. Aragosta annidata. Galantina di tacchinotto. Insalata bianca e rossa. Gemme in neve. Frutta tropicali". Curiosi i menu provenienti dall'Hotel Excelsior di Roma, per il "pranzo di gala" di San Silvestro. Su quei fogli compaiono nel 1929 il "Caviale fresco del Volga", il "Salmone del Reno" e le "Pollanche di Modena con tartufi umbri", nel 1932 gli immancabili "Scampi Aurora". Per la "colazione" del 1935 la portata principale, è costituita dallo "Zampone di Modena con lenticchie casalinga". Tutto questo ci dice che, specialmente a Capodanno, è proprio vero quanto diceva il gourmet francese Brillat-Savarin: "Invitare qualcuno a pranzo significa occuparsi della sua felicità".
Clara e Gigi Padovani,
dicembre 2023