La prima persona che mi ha parlato dei bruscitti è stata Marilena Lualdi, bustocca doc, amica e collega giornalista; e lo ha fatto con un tale trasporto da stuzzicare la mia curiosità. Dal suo racconto ho capito che questo piatto, uno stufato fatto con tagli poveri del manzo, anzi originariamente con ciò che restava della carne attaccata all'osso (bruscitti in dialetto vuol dire briciole), non è solo una ricetta della cosiddetta tradizione, ma è il portabandiera di una comunità, una fotografia dell'anima e della laboriosità bustocca, oserei dire quasi una religione. Di certo è che a Busto Arsizio, chiamata in dialetto Büsti Gràndi per distinguerla da Büsti Picul (Busto Garofalo), le tradizioni, cucina in primis, sono una cosa sacra, da conservare, tramandare e divulgare, anche con i mezzi più moderni come i social, perché possano essere condivise, recepite e assaggiate anche da chi vive altrove o dalle nuove generazioni. Così la pensa Edoardo Toia, da poco più di due anni Maestro del Magistero dei Bruscitti, che ho incontrato per farmi spiegare qualcosa di più. Il Magistero (nome che suona più importante di confraternita), insignito nel 2013 dal Comune di Busto Arsizio della Civica Benemerenza, è nato nel 1975 da un'idea di Bruno Grampa, medico e appassionato studioso della storia, delle tradizioni e del dialetto di Busto (peraltro un dialetto che si parla solo qui), e conserva da allora la ricetta ufficiale. Un'idea geniale questo stufato che, grazie alla lunghissima cottura nello "stuen" (un grosso recipiente di terracotta immerso nelle braci del camino), consentiva alle donne di andare a lavorare nei campi o in fabbrica. Nulla allora andava sprecato, nemmeno il tempo. Bisognava sbarcare il lunario e Busto, già alla fine dell'800, necessitava di manodopera per l'industria meccanica e tessile. Da allora a oggi, il piatto ha continuato a vivere, talvolta solo come ricordo, ma dal 1975, grazie agli attenti custodi del Magistero e alle loro riunioni conviviali, il sapore della preparazione si è consolidato; ancora di più a partire dal 2012 con la nascita del "Ul dì di Bruscitti": una manifestazione pubblica che cade il secondo giovedì di novembre di ogni anno e dove si condivide il piatto servito con polenta. Anche se, a detta di molti, la puccia migliore si fa con il pane misto che assorbe meglio il sugo: una volta era fatto con farina di grano e segale, oggi da tre parti di farina di frumento e una di farina di mais. Per il resto la preparazione segue regole ferree: quattro tagli di manzo (polpa reale, tampetto, fustello, cappello del prete) tagliati a pezzi grossi come una mandorla, messi in una pentola dal fondo spesso con 50 g di burro per ogni chilo di carne: il tutto a freddo, perché i bruscitt devono ammorbidirsi lentamente cedendo il loro succo durante la cottura. In mezzo alla carne va posto un sacchetto di garza con mezzo cucchiaino di "erbabona" (semi di finocchio selvatico), poi fiamma bassissima, coperchio e via per tre ore; poco sale e pepe. Se la bagna si restringe, si aggiunge burro, niente brodo, guai il pomodoro: è visto come il diavolo. Il momento delicato arriva a fine cottura quando, tolto il sacchetto di erbabona, si alza la fiamma e si versa un bicchiere di rosso robusto, meglio un Gattinara di almeno 10 anni. Poi, a fiamma bassa e coperto, si aspetta che l'asprezza del vino evapori. L'assaggio racconterà se Bruno Grampa aveva ragione quando ha scritto: "I bruscitti hanno conservato con la carne il sapore del peccato, col finocchio raccolto nei campi il profumo della giovinezza e col vino il gusto prepotente dell'età matura".
Laura Maragliano,
febbraio 2024