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Quello che ti sei sempre chiesta sul pesce d'allevamento

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È grasso, mangia male, ha un pesante impatto sull’ambiente e non è fresco: pronta a veder smontate le “fake news” sul pesce d’acquacoltura (che invece è un’eccellenza italiana)?

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E pesce sia! Che sia fresco o che arrivi da un allevamento, poco importa: si tratta sempre di un alimento pregiato, che sta alla base della dieta mediterranea e che dovremmo portare in tavola più spesso. In questo l’acquacoltura ci dà una bella mano perché il pesce allevato si trova in commercio tutto l’anno, a prezzi abbordabili e con garanzie di sicurezza e tracciabilità. Eppure i pregiudizi contro il pesce allevato sono ancora tanti. E questo limita lo sviluppo dell’acquacoltura, che potrebbe aiutare l’Italia a ridurre la dipendenza dall’import (l’80% del pesce in vendita in Italia arriva dall’estero, e per metà è allevato), e non valorizza abbastanza la nostra produzione nazionale, che all’estero è considerata un'eccellenza, in particolare per quanto riguarda spigole, orate, trote, salmerini e caviale. Per fare chiarezza e sfatare tante “bufale” sul pesce allevato l’azienda di mangimi Skretting ha realizzato una guida pratica rivolta ai consumatori che vogliono saperne di più sull’acquacoltura moderna, mentre il CREA ha promosso una campagna informativa sull’acquacoltura biologica. Ma, allora, c’è da fidarsi del pesce allevato? Ecco le 6 questioni-chiave per rispondere.


Il pesce allevato è sicuro?
Paradossalmente lo è più di quello pescato. E per diversi motivi. Innanzitutto la qualità dell’alimentazione e delle acque in cui vive, unite al ciclo di vita breve, fanno sì che il pesce allevato accumuli meno contaminanti chimici (come diossine e metalli pesanti) rispetto a quello pescato, che spesso arriva da mari inquinati. E poi del pesce che viene catturato in mari e oceani conosciamo solo la zona dov’è stato preso e il metodo di cattura. Ma non sappiamo né quello che ha mangiato né la qualità delle acque dov’è cresciuto né la quantità di metalli pesanti che ha accumulato. Al contrario, il pesce d’acquacoltura è seguito, controllato e “tracciato” durante tutto il suo ciclo di vita e deve sottostare a precisi requisiti di legge. In particolare, quello allevato nei paesi dell’Unione europea deve rispettare il benessere animale (ad esempio sono vietati gli ormoni promotori della crescita) e viene monitorato dall’uovo al consumo. Questo sistema non fornisce garanzie solo sul pesce che arriva nel piatto ma anche su quel che ha mangiato e sulle tecniche con cui è stato allevato e consente di risalire in ogni momento a tutti i passaggi di cui è stato oggetto. Invece nei paesi extraeuropei, in genere, i controlli si limitano al pesce pronto da immettere sul mercato, che deve rispettare i requisiti fissati dalla Ue, ma manca tutta la parte di tracciabilità del prodotto. Dunque, occhio alla provenienza, indicata in etichetta o sui cartelli esposti in pescheria, e attenzione anche al prezzo: se un’orata scende sotto i 15-16 euro al kg, allora arriva da paesi più competitivi ma con produzioni di minor qualità e meno controllate, come la Turchia.


Cosa mangiano i pesci che mangiamo?
Negli allevamenti i pesci sono nutriti con mangimi bilanciati, sicuri e controllati, differenziati in base alla loro età e dosati per farli crescere più in fretta. Si usano soprattutto mangimi a base di farine animali, perché sono molto ricche in proteine, grassi e sali minerali, e quindi hanno un ottimo valore nutrizionale per le specie ittiche carnivore. Queste farine possono essere ottenute da sottoprodotti della macellazione degli animali destinati al consumo umano oppure da scarti del processo di trasformazione del pesce pescato. Si tratta di un modo concreto per valorizzare dei “nutrienti” che altrimenti sarebbero inutilizzati e per contribuire all’economia circolare. Inoltre, per rendere l’acquacoltura più sostenibile, si usano sempre più spesso anche mangimi ottenuti da materie prime vegetali (come le alghe) e si va diffondendo l’utilizzo di quelli a base di farine di insetti.


L’acquacoltura è insostenibile perché impoverisce i mari?
Al contrario, è una delle soluzioni concrete per rispondere alla crescente domanda di prodotti ittici senza sfruttare ulteriormente mari e oceani. Oggi c’è un grave problema di sovrasfruttamento ittico per la maggior parte delle specie e quindi non si può aumentare la quantità di pescato, anzi occorre diminuirla. Per questo è importante l’acquacoltura purché condotta in modo moderno e sostenibile, ossia riducendo l’uso di faine e oli di pesce nei mangimi a favore di altri “ingredienti”, come i residui della macellazione animale, gli insetti e le materie prime vegetali. “I pesci sono gli animali più ‘efficienti’ nel trasformare quel che mangiano in massa corporea: per ottenerne 1 kg occorre circa 1,5 kg di mangime, contro i 2,9 kg dei suini e i 6,7 kg dei bovini - spiega Fabrizio Capoccioni del Centro di ricerca di Zootecnia e Acquacoltura presso il CREA - Per questo, tra gli allevamenti, quello ittico è uno dei più sostenibili”. Per minimizzare l’impatto sull’ambiente dell’acquacoltura sono state sviluppate delle nuove tecnologie per trattare l’acqua in uscita degli allevamenti, come le vasche di decantazione, che riducono il carico inquinante, e dei sistemi di filtrazione che consentono il riutilizzo di gran parte dell’acqua usata nelle vasche.


Il pesce allevato ha meno nutrienti di quello pescato?
No, ha caratteristiche nutritive simili a quelle del pesce selvaggio e anche più stabili vista che la composizione nutrizionale del pesce pescato varia in funzione di diversi fattori (specie, stagione, alimentazione, età, ecc). In genere, i pesci di allevamento tendono ad accumulare più grassi nelle loro carni. E questo è un vantaggio, perché in genere hanno una maggiore presenza di Omega-3, i grassi “amici del cuore”. Quantificare queste differenza, però, non è facile perché questa (come molte altre caratteristiche nutrizionali dei pesci d’allevamento) dipende da quello che mangiano i pesci allevati. Ad esempio, quelli nutriti con oli vegetali apportano meno Omega-3 rispetto a quelli alimentati con mangimi a base di oli di pesce. In ogni caso, il consiglio resta quello di consumare ogni settimana due porzioni (almeno) di pesce grasso o semigrasso, pescato o allevato: così si copre il fabbisogno di Omega 3.


Il pesce pescato è più fresco di quello allevato?
In Italia il pesce allevato arriva da filiera corta e viene pescato "on demand" da parte dei commercianti. Quindi arriva sempre fresco nei negozi e in tempi, in genere, inferiori rispetto a quanto avviene per il pesce pescato. Inoltre, il pesce d’allevamento non viene mai surgelato prima della commercializzazione. Altra differenza: il pesce allevato è sempre di stagione. Infatti a differenza del pescato - che non è sempre disponibile perché sottoposto alla stagionalità, ai limiti di pesca degli stock ittici e anche alle condizioni climatiche - il pesce d'allevamento si trova in vendita, sempre fresco, 12 mesi l'anno.


Il pesce allevato in modo biologico è meglio?
È quello che offre garanzie ancora maggiori, in termini di benessere animale (ad esempio densità di allevamento), alimentazione e divieto di uso di antibiotici. “L’acquacoltura biologica è la più sostenibile perché è la più attenta al benessere animale (ad esempio i pesci hanno più spazio a disposizione), alla qualità dei mangimi, che devono essere fatti con ingredienti bio, e alla sostenibilità degli allevamenti, che devono avere un basso impatto ambientale” afferma Fabrizio Capoccioni del CREA. Ha tanti vantaggi l’acquacoltura biologica ma è ancora giovane e poco diffusa: autorizzata da un decennio, oggi rappresenta solo il 3% della produzione ittica italiana, con oltre una decina di specie tra pesci e mitili (soprattutto cozze, trote, spigole e orate). Ma potrebbe crescere, se ne comprassimo di più, approfittando del fatto che ora lo si può acquistare anche in Gdo (ad esempio in Esselunga) e tramite i gruppi di acquisto solidale (GAS).


Manuela Soressi
aprile 2019



 


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