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News ed EventiPiaceri10 piatti napoletani da provare almeno una volta nella vita

10 piatti napoletani da provare almeno una volta nella vita

La cucina è memoria. Una cucina ricca come quella partenopea offre tante prelibatezze dolci e salate. Fare una selezione è stato difficile, vi proponiamo dieci piatti che vanno assaggiati almeno una volta nella vita perché sono decisamente buoni (e perché alcuni, scommettiamo, non li conoscete ancora, e sarebbe un gran peccato!)

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Nei decenni, la ricca cucina napoletana ha subito alcune trasformazioni, com’è naturale, e oggi si fa quasi fatica a trovare alcuni piatti di antica memoria contadina che facevano nonne e prozie, mentre altri pilastri della tradizione culinaria partenopea continuano – per fortuna – a gratificare il palato di napoletani e non, anche se con alcune modifiche che li rendono più aderenti alle esigenze odierne, nelle ricette domestiche come in quelle offerte dalla ristorazione, spesso rielaborate dal cuoco. 
Tra le molteplici ricette che compongono il mosaico variegato e colorato di questa cucina, ci sono capisaldi che ne evocano perfettamente le tinte, i sapori e soprattutto l’anima profondamente conviviale che caratterizzano, oggi come ieri, il popolo napoletano e la sua tavola. Per non far torto a nessuno – e perché è assolutamente impossibile farne una graduatoria che non sia totalmente personale – ve li presentiamo in ordine alfabetico. La pizza è la grande esclusa di questa lista, ma merita un intero capitolo a parte – e non vi è rischio che vi colgano impreparati!

Il babà e le paste napoletane

Babà al rum con panna e lamponi

La tradizione della pasticceria campana – napoletana in particolare – è spesso legata alla vita monastica. I conventi usavano ricambiare le donazioni fatte da nobili e potenti con innumerevoli dolci golosi, le cui ricette le monache custodivano gelosamente. Ne citeremo un paio per brevità, trovate una lista più dettagliata qui. Tra questi spicca sicuramente il babà, nato in Polonia nel XVIII secolo e arrivato a Parigi e poi a Napoli grazie ai “monsù”, deformazione di monsieur, chef francesi che prestavano servizio presso le nobili famiglie napoletane. A Napoli il babà ha raggiunto la sua perfezione, acquisendo le caratteristiche che lo distinguono: la particolare morbidezza dell’impasto (realizzato con grano tenero, uova, burro o strutto, sale, zucchero e lievito di birra) bagnato con acqua e zucchero aromatizzata al limone e corretta al rum, e la caratteristica forma bombata, simile a un fungo. Il babà lievita per due volte e si cuoce in forno, e oggi viene comunemente considerato una specialità napoletana. Diffusussime le delizie (o ‘sospiri’) al limone: di antica origine, sono piccoli dolci di forma semisferica formati da due semicerchi di pan di Spagna con al centro crema pasticcera o, più di recente, crema al limone, grazie anche all’abbondanza di limoni della costiera Amalfitana.

La frittata di scammaro

Frittata di scammaro

Utilizzata in origine nei conventi nei periodi di magro (i giorni di “scammaro”, nel Regno delle Due Sicilie, erano quelli di quaresima) perché realizzata senza uova. I religiosi, che erano delle buone forchette, nel periodo di digiuno quaresimale erano costretti a inventarsi piatti appetitosi utilizzando i pochi ingredienti concessi. Nasce così questo piatto semplice ma molto gustoso, che pare fosse uno dei preferiti di Eduardo de Filippo. La frittata di scammaro è fatta con spaghetti o vermicelli scolati molto al dente. Questi vengono poi passati in una padella con aglio e olio, per insaporirli bene. Eliminato l’aglio,  alla pasta si aggiungono olive nere snocciolate, capperi, prezzemolo tritato, filetti di acciuga sott’olio, uva passa, pinoli. Si mescola bene il tutto, si aggiunge altro olio in padella e si cuoce la frittata in modo che la pasta si consolidi in un'unica massa, come una regolare frittata, con una crosticina croccante esterna: “a fuoco vivo, girando la padella leggermente inclinata e in ogni direzione, perché deve rosolarsi anche sui lati”.

Il gattò di patate

GOLOSO GATTO

Questo sformato – fondamentalmente un rustico – è uno degli emblemi della cucina partenopea. Molto diffuso, è facile da preparare e buono anche a temperatura ambiente. Il nome è una corruzione del lemma francese gâteau (torta), perché, pur essendo un piatto salato, ne riproduce la forma. È a base di patate lessate e schiacciate cui vengono aggiunti latte e uova sbattuti con parmigiano o pecorino grattugiati, noce moscata e pepe; l’impasto risultante viene diviso in due: stesa la prima metà sul fondo della teglia, la si copre con uno strato di prosciutto cotto, salame tipo Napoli a cubetti, scamorza, pecorino, provola, fiordilatte (ben sgocciolata) o altri formaggi tagliati a dadini. Si stende l’altra metà di impasto di patate a coprire il ripieno,la si spennella con un tuorlo e si completa con pangrattato, formaggio grattugiato, fiocchetti di burro. Meraviglioso anche tiepido.

La genovese

GENOVESE NAPOLETANA

Risale al XV secolo questo ricco sugo di carne bovina con cipolle, utilizzato per condire la pasta (spesso la carne viene consumata a parte). I tagli di carne utilizzati sono reale, spalla o sottospalla, tutti da bovino adulto e caratterizzati da presenza di grasso. Si affettano e si fanno cuocere a fuoco lento e coperte tante cipolle bianche o ramate (1,5 kg per 1 kg di carne) in un soffritto di lardo, carote, sedano e prezzemolo tritati in abbondante olio d'oliva – talvolta vengono aggiunti anche uno o due pomodorini del piennolo. Si aggiunge nella casseruola la carne a pezzettoni o intera, mescolando e lasciando cuocere il tutto per almeno un'ora e mezza, sempre a fuoco basso. A questo punto, tolto il coperchio, si alza la fiamma e si sfuma la carne con vino bianco. L’origine del nome è controversa e la trovate qui, con altre curiosità. La pasta utilizzata tradizionalmente per la genovese sono gli ziti, spezzati a mano sopra un contenitore che ne raccolga i pezzetti più piccoli, che andranno versati nella casseruola, in modo che si sciolgano nella lunga cottura e contribuiscano a dare cremosità al sugo. Irresitibile.

La parmigiana di melanzane

parmigiana di melanzane

In molti libri di gastronomia editi prima del 1900, la locuzione “parmigiana” viene adoperata per indicare preparazioni con strati di ortaggi affettati e cotti, insaporiti con il formaggio tipico emiliano. La ricetta completa della parmigiana di melanzane come la conosciamo compare – con il nome errato ma oramai diffusissimo di “melanzane alla parmigiana” – nel famoso Talismano della felicità di Ada Boni nel 1929. La ricetta utilizza melanzane del tipo lungo (cima di viola o lunga napoletana) che vengono prima tagliate per la lunghezza a listarelle (con la buccia), poi poste sotto sale per qualche tempo; lavate con acqua fredda e tamponate bene, infine  fritte in abbondante olio extravergine di oliva avendo cura che rimangano morbide. Una variante molto diffusa le impana prima di friggerle, passandole in uovo battuto con sale, pepe e poi nel formaggio grattugiato (pecorino o parmigiano). Le melanzane – una volta sgocciolate dall’olio in eccesso – vengono messe in una teglia in strati alternati di formaggio (caciocavallo o provola o fiordilatte,  sgocciolata per ore) tagliato a listelli, e a strati di ragù napoletano, senza la carne (vedi qui di seguito). L’ultimo strato è di lasagne, spennellate di uovo sbattuto e spolverizzate con abbondante formaggio grattugiato. Si pone la teglia prima su fuoco vivo e poi in forno caldo, per la gratinatura.

La pasta allo scarpariello

Nata a Napoli nella prima metà dell’Ottocento con l’affermarsi della pasta condita con pomodoro, questa ricetta, sebbene poco conosciuta ai più, è diffusa in tutte le osterie e ristoranti tipici del centro storico di Napoli. È un tradizionale piatto di Napoli e Aversa a base di spaghetti, conditi con un sugo cremoso di pomodoro (pelati o fresco), peperoncino piccante e basilico fresco e abbondante grana e pecorino grattugiati. In alternativa agli spaghetti si possono usare penne o fusilli; nella versione aversana del piatto viene impiegato un tipo di pasta di formato casereccio. Il nome del piatto sembra origini dai cosiddetti “scarparielli”, i calzolai, le cui mogli avevano la necessità di preparare un pasto veloce che potesse essere portato alla bottega senza perdere fragranza. Un’altra possibile etimologia deriva dal morbido condimento, particolarmente adatto alla “scarpetta” (pane intinto nel sugo rimasto nel piatto una volta finita la pasta).

La pastiera

Tutti conoscono quello che da dessert napoletano di Pasqua è diventato un dolce famosissimo in tutto il mondo, oggi disponibile tutto l’anno. Immancabile sulle tavole campane, pare abbia origine lontana: dolci simili erano preparati in occasione delle antiche feste pagane che celebravano la primavera attraverso ingredienti come la ricotta fresca, le uova, il grano cotto. La pastiera come la conosciamo adesso la dobbiamo alle suore del monastero di San Gregorio Armeno, che vollero celebrare la Risurrezione con un dolce che unisse il profumo dei fiori d’arancio del giardino conventuale alla ricotta, al grano, alle uova, simbolo di nuova vita, al cedro e ad alcune spezie. La pastiera è formata da un guscio di pasta frolla tradizionale, farcito con un composto di ricotta, zucchero, strutto, grano duro cotto, uova, acqua di millefiori e vaniglia, ed è decorata in superficie a losanghe di striscioline di pasta frolla. La pastiera va fatta in anticipo,  il Venerdì Santo, perché si riposi e tutti gli ingredienti si amalgamino bene. Viene tradizionalmente  cotta, servita e venduta nei tipici ruoti di ferro stagnato, poiché è talmente fragile che a sformarla si rischia di disfarla irrimediabilmente.

Il ragù napoletano

ZITI AL RAGU_NAPOLETANO

È l’emblema del patrimonio enogastronomico campano, legato al pranzo domenicale. Questo ragù – a differenza del suo omologo bolognese – cuoce la carne (manzo e maiale) in grandi pezzi caratterizzati da presenza di grasso come spalla, sottospalla, salsicce e così via. Le ricette variano molto, alcuni vi inseriscono anche una braciola, arrotolata e chiusa a involtino, farcita da pecorino tritato, aglio, prezzemolo, pinoli e uva passa. I tagli di carne variano secondo le ricette di famiglia. I pezzi sono interi, talvolta steccati con pancetta o prosciutto, e vengono rosolati con un soffritto abbondante di cipolla bianca, sedano e carota tritati, in lardo oppure in olio extravergine di oliva, bagnandoli con vino rosso, per lungo tempo e molto lentamente – in dialetto devono “pippiare”, cioè sobbollire piano – perché il ragù raggiunga quella consistenza e quel gusto che lo rendono eccezionale. Una volta rosolata la carne in tegame, si alza di poco la fiamma e si aggiungono pomodoro concentrato e, a cottura avanzata, il pomodoro passato.  La pasta – generalmente ziti rigorosamente spezzati a mano oppure candele, paccheri, rigatoni – verrà condita solo con il magnifico sugo scuro che ne risulta, mentre la carne verrà servita a parte.

Il sartù di riso

Sartù in bianco

Questo ricco timballo a base di riso è estremamente nutriente e di elaborata preparazione. È basato sul ragù napoletano, con il quale condivide la tavola della festa: si preparano piccole polpette con parte della carne utilizzata per il ragù (vedi sopra) insieme a pane raffermo ammollato, uova e formaggio grattugiato. Queste vengono fritte con rigaglie di pollo a pezzetti; a parte, si cuociono dei piselli in un soffritto di cipolla. Polpette e piselli vengono poi uniti in un contenitore cui viene aggiunta parte del sugo del ragù. Si lessa il riso al dente, lo si scola e vi si aggiungono altro sugo del ragù, parmigiano e uova precedentemente sbattute, mescolando. Si fa uno strato di riso condito in una teglia grande, si pongono al centro le polpettine, le rigaglie, pezzi di salsiccia utilizzata per il ragù e i piselli, seguiti da uno strato di provola, uova sode e prosciutto cotto a dadini; si ricopre con altro riso condito, e quindi con pangrattato e riccioli di burro; si pone in forno caldo per la gratinatura. L’origine è settecentesca; il nome sartù deriva dal francese “sur tout”, sopra tutto, che ben si addice a questo piatto unico ricercato e sontuoso.

Gli spaghetti con le vongole fujute

Spaghetti con le vongole fujute 1

Storicamente, l’arte di arrangiarsi e la fantasia delle massaie napoletane in cucina è sempre riuscita, anche nei momenti difficili quando alcuni prodotti erano estremamente costosi o proprio irreperibili, a trovare soluzioni semplici e gustose. Con un pizzico di ironia. Come nel caso di questo piatto, gli spaghetti con le vongole fujute (cioè scappate) la cui paternità viene da alcuni attribuita al grande Eduardo De Filippo. Pare che nel 1947, al termine di uno spettacolo teatrale, Eduardo – stanchissimo – arrivato a casa si rese conto che la dispensa era quasi del tutto vuota: affamato, prese degli spaghetti e li condì con solo aglio, peperoncino e pomodorini corbarini in padella, per poi abbondare con il prezzemolo: semplicissimi ingredienti che furono sufficienti a dare al piatto un illusorio profumo di mare. Cos’era successo? Il segreto sta nel Pomodorino di Corbara, che ha la caratteristica unica di assorbire l'aspro salmastro del mare e di conferire ai sughi l’aroma penetrante dei frutti di mare, anche se non ci sono. Il giorno dopo, Eduardo raccontò di aver preparato gli spaghetti con le vongole le quali, però, erano misteriosamente fujute, cioè scappate. La storiella – e la ricetta – fecero il giro della città, e il piatto entrò nella cucina della tradizione.

 

Francesca Tagliabue
aprile 2025

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