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Dubrovnik, dove la contaminazione gastronomica fa breccia

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La pasta e l’ascendente italiano; il vino e le piccole ottime produzioni di Dalmazia. La cucina aperta dell’antica Repubblica di Ragusa, oggi Patrimonio UNESCO, dall’altra parte del mare Adriatico.

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Montagne seminude da un lato, mare coperto da isole verde lussureggiante dall’altro, la strada costiera che va dall’aeroporto al centro cittadino è già uno spettacolo. Poi, dall’alto, la vista di Dubrovnik, con la sua polla di porto azzurro-turchese come un’iride protetta da spesse palpebre di pietra, le mura squadrate che tagliano l’acqua di questa città antica, per secoli chiamata Ragusa. Secoli in cui ha subito influenze da tutti i lati, Occidente e Oriente, Venezia e l’Adriatico, i Balcani e il Continente, tutto riflesso nella sua storia culinaria: tanto la città ha sempre voluto proteggere se stessa e la propria identità –  una chiusura incarnata dalla sua conformazione fisica super-fortificata – quanto la sua cucina è massima apertura, tracce dell’altro e gusto del nuovo, come i traffici commerciali della Repubblica di Ragusa, fiera repubblica marinara durante quattro secoli e mezzo, fino all’inizio dell’Ottocento.


132645A Dubrovnik si trova e sperimenta un po’ di tutto: dalla cucina giapponese a quella francese, passando per l’argentina, tanto che le autorità locali hanno ben pensato di creare il Good Food Festival, kermesse gastronomica che imbandisce la città nella seconda metà di ottobre. Certo, sulle tavole cittadine è il peso dell’Italia quello più evidente: la prima cosa che ci viene servita è una burrata, arrivata in diretta dall’altro lato del mare. Siamo al ristorante Pantarul, fuori dalle mura, una tappa da non perdere se si passa in città. La scioglievolezza della burrata è di qualità senza pari, ed è accompagnata da crostoni con marmellata di fichi, indivia, sale, olio extravergine d’oliva e filetti di scorza d’arance: una poesia in bocca, e un’idea precoce di ciò che la città ci proporrà. 132641In particolare i fichi – frutto che domina le conserve dolci del luogo, con tanto di “torta” di fichi secchi; le scorzette d’arancio candite – vendute in ogni mercato con fichi secchi, appunto, mandorle incrostate di zucchero e foglie d’alloro; l’olio extravergine, un bene da sempre di somma importanza. L’oliva più comune in Dalmazia si chiama “Levantinka oblica”, l’olio che dà non è molto forte, ma ci sono molte altre varietà, più amare, più dolci, più rare, come il “Buharica”, con micro-produzioni come quella dei 29 alberi rimasti sull’isola di Brač. 

Ma questo piatto ci dà anche un’idea più generale di cosa incontreremo a Dubrovnik, Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO: una cucina perfetta per il turista italiano che non vuole rinunciare ai sapori di casa, conditi con un tocco di Balcani, e affiancati da proposte di gusti diversi per dare spazio all’esplorazione del foresto. Infatti la Dalmazia è uno di quei posti in cui si dice che invece che mangiare per vivere, si vive per mangiare…ricorda qualcosa?!? E se ciò non fosse abbastanza per riportare il pensiero all’Italia, parliamo di pasta.

132647La pasta, qua, è ovunque, e quella fresca preparata dai ristoratori sono soprattutto ravioli e maccheroni, come quelli di Žrnovo, o quelli “sporchi” che si fanno tradizionalmente in occasione della festa di San Biagio, il patrono cittadino. Marina Zibert, chef del ristorante Sesame, ci fa degustare quattro tipi di pasta: al pesto genovese (ottimo!), e poi un tris di ravioli: ai formaggi (l’universo-formaggio è obbiettivamente assai più limitato del nostro, ma c’è qualche interessante e premiata piccola produzione, ovina e caprina); all’aragosta; infine, eccellenti, alla coda di bue.
132667Marina è diventata chef per guerra
: nel suo racconto lucido ogni tanto brilla qualche lacrima, e poi si mischiano cecchini e notti stellate, studi universitari di Economia e studi di come si fa la pasta sui libri di Thomas Keller e poi ancora studi al Cordon Bleu per diventare una vera chef.

132669Toni invece, croato doc, ha aperto la Spaghetteria Toni in uno di quei vicoli stretti e carichi di scalinate e di piante che partono dallo Stradun - il nome veneziano della via principale che questa città non ha mai abbandonato dai tempi della dominazione della Serenissima, per 150 anni a partire dall’inizio del 1200. La pasta di Toni è stata definita dal New York Times una delle migliori al mondo: una critica americana, certo, comunque non perdetevi assolutamente le sue pappardelle con gamberi e pesto di pistacchi!

Naturalmente una buona pasta va innaffiata con un buon vino, e da questo punto di vista non si rimarrà affatto delusi. Se all’epoca della Yugoslavia tutte le uve convogliavano insieme, la tradizione viticola è in realtà molto antica: negli ultimi lustri è stata ripresa, e la regione si è popolata di piccoli e anche piccolissimi produttori, famiglie spesso, che portano avanti discorsi vinicoli davvero molto, molto interessanti. Tanto che la Dalmazia sta diventando sempre più popolare come “wine destination” per gli appassionati. 132675Per il bianco, il vitigno autoctono per eccellenza è la Malvasia: profumatissima (mediamente molto più di quella istriana), senza neanche andarvela troppo a cercare, vi capiterà nel bicchiere e non potrete che goderne. Per il rosso dedicatevi al vitigno “Plavac Mali” – letteralmente “piccolo acino blu”: molto tanninico, struttura complessa, forte e meridionale, proprio come il nostro Primitivo, che è geneticamente suo fratello. Infine ci sono i vini dolci, a partire dal Prošec, un passito ha perso il nome per colpa dell’italico Prosecco.


Dove provare tutto ciò? Nei numerosi bar da vino che vi accolgono attrezzati di tutto punto per le degustazioni: nel centro storico Dvino  o Malvasija; nel porto di Gruz l’enoteca Škar, che tra botti e cime si rivela un piccolo ex cantiere navale. Oppure prendete un bicchiere super-panoramico al Panorama Restaurant & Bar, che domina città e costa all’arrivo della funicolare, oppure nello spettacolare Buža bar, un – letteralmente – “buco” nella roccia di mare a penzoloni fuori dalle mura cittadine.132657

Ma continuiamo il nostro pasto: il pesce un tempo era il cibo di tutti, mentre la carne – un bel cappone pasciuto, per esempio – era appannaggio degli aristocratici. Oggi pesce e frutti di mare sono l’offerta numero uno per i turisti – ostriche comprese, che si producono in abbondanza nella vicina Ston, una quarantina di km di distanza, e una muraglia in pietra da far invidia ai cinesi. I locali, quasi quasi, optano per la carne: non tanto manzo (le mucche lì non ci sono mai state), ma maiale e soprattutto ovini. La produzione è tutta invernale: i vacanzieri estivi si perdono inevitabilmente specialità come la carne di pecora seccata, o la Zelena Manestra, uno stufato a base di cavolo e carne affumicata la cui ricetta scritta compare fin dal 1480.

Ciò che nessuno si perde, invece, è la merenda. Ma cos’è la merenda? Si tratta di una sorta di brunch per lavoratori, che si consuma tra le 11 e mezzogiorno, oggi molto popolare nel weekend. In Dalmazia, oltre a pancette affumicate e insalate di patate, ci sono i pesci, come le sardine (in spiedino, magari) e le alici, oppure il baccalà mantecato stile veneziano e insalata o carpaccio di polpo; le verdure mediterranee comuni (come le melanzane, conciate a mo’ di parmigiana, o le zucchine, in frittella) e quelle autoctone, come la “Zucenica”, un’erba selvatica.

132685I prodotti buoni, locali e bio qui si trovano in abbondanza, da sempre, con il passaparola: i vicini di casa, il conoscente, c’è chi produce l’olio, chi la frutta, l’altro il formaggio, c’è chi arriva con una sportina della spesa piena di pesce invenduto e te lo dà. Genuini, e poco cari. Anzi magari scambiati, il baratto. Consuetudini 132659sane in tutti i sensi, che rischiano di perdersi, tra certificazioni, prezzi alti, mentalità che si guastano. Sarebbe un vero peccato. I formaggi – magari sott’olio – e i prosciutti – di solito ben salati – nella marenda non mancano mai. Se le varie regioni della Croazia sono molto diverse tra loro per storia e cultura, anche culinaria, la marenda la fanno tutti – così come la passione per prosciutti, carni e salumi stagionati è un tratto nazionale.

E i dessert? Anche in questo caso la contaminazione culturale vince: il dolce più tipico è la Rosada, che è il classico flan spagnolo, guarnito però di liquore di rosa. E a proposito di liquori: assaggiate le proposte locali, che nascono dalla grappa, “loza”, mischiata con erbe o frutti, come le noci o le ciliegie acide. Oppure, perché no, finite con un bel gelato – italiano, naturalmente. Ma badate: già nel XVI Secolo la nobiltà di Ragusa bucava le montagne per conservare ghiaccio e neve e accogliere i suoi ospiti stranieri con un aperitivo di dolci serviti ghiacciati e nevosi, un incredibile lusso per allora. Adesso i lussi sono altri, ma l’ospitalità dopo tutti questi secoli non manca di stupire.

Carola Traverso Saibante
4 novembre 2016

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