Se Gualtiero Marchesi si nutre di quello che cucina non c'è dubbio che gli faccia molto bene. Il Maestro indiscusso dell'alta cucina italiana non cede allo scorrere degli anni (85 compiuti il 19 marzo scorso) e sembra aver trovato il modo di arrestarne gli effetti, se non di tutti, almeno degli ultimi due o tre lustri.
La sua ultima fatica editoriale d'altronde, in libreria dal 28 aprile, è di tali proporzioni che non solo per concepirla, ma persino per sollevarla bisogna essere intrisi di vigore giovanile.
"La cucina italiana: il grande ricettario", pubblicata da De Agostini con prefazione dell'enogastronomo Fabiano Guatteri(49,90 euro), si propone infatti come raccolta esaustiva, per non dire definitiva, dell'intero patrimonio della nostra tradizione gastronomica.
Una missione ambiziosa, sicuramente degna di Marchesi. Ma com'è possibile che proprio il padre dell'alta cucina italiana, rettore di Alma, fondatore del ristorante Marchesino alla Scala di Milano e di altri templi della gastronomia più sofisticata, si sia occupato di ricette regionali e popolari?
La risposta al quesito ci viene data durante la presentazione organizzata negli spazi della sua Accademia (a Milano, in via Bonvesin della Riva, altro indirizzo nodale per chiunque abbia seguito nel tempo la Marchesi Story).
Tra postazioni di lavoro in acciaio inox che, per l'occasione, fungono da tavolate piene di bicchieri e piattini, il grande cuoco siede in mezzo agli ospiti come l'amico affabile e brillante, abituato ad attrarre su di sé tutta l'attenzione. E ogni nostro dubbio viene dissipato.
"Tutto comincia molti anni fa, quando da ragazzo mi sono avvicinato al mestiere di cuoco prendendo in mano i sacri testi italiani. Ben presto mi sono reso conto che mancavano completamente di tecnica. Io avevo bisogno di capire, comprendere, sviscerare molti dei procedimenti insisti nelle ricette. Ma la mia curiosità non poteva essere soddisfatta nelle cucine che avevo conosciuto fino a quel momento, dove il sapere era tramandato da madri e nonne e la gastronomia era una questione di amore più che il risultato di una vera consapevolezza. Così sono partito alla ricerca di altri maestri e di nuove risposte".
E le ha trovate?
Non solo, ma ne ho fatto la base della mia cucina più innovativa. Oggi, a molti anni di distanza, ho voluto riprendere in mano l'intero patrimonio popolare italiano e finalmente aggiungervi quella tecnica che vi mancava, che poi non è altro che la soluzione giusta, la forma più corretta per risolvere ogni problema.
Può farci un esempio?
Prendiamo un risotto. Che sia ai carciofi o ai funghi questo piatto finisce sempre per sapere di formaggio. In Italia siamo abituati ad annegare i cibi nel pomodoro e a mantecarli con quantità eccessive di grana. E perché lo facciamo? Per dare al piatto la giusta acidità. Tutto quel formaggio e quel pomodoro servono ad aggiungere la nota acida. Stando in Francia io ho capito che era molto meglio sostituire il formaggio con il beurre blanc, un burro del gusto acido. Che però non copre gli ingredienti del risotto, ma li rispetta.
Lei deve molto alla Francia?
Dal punto di vista tecnico senz'altro. Chiunque voglia svolgere questo mestiere ad alto livello deve fare esperienza nelle brigate dei grandi ristoranti francesi, dove tutto viene cucinato sul momento. E dove si impara a cuocere bene. Il nostro è il Paese dei cibi troppo cotti. Ma ben cotto significa un'altra cosa. Vuol dire trovare il giusto rapporto tra fiamma e padella, il punto esatto di calore per esaltare ogni tipo di materia. Perché quella che abbiamo in Italia è una materia eccellente e non va sprecata.
Quindi almeno negli ingredienti siamo al top?
Lo sa cosa mi disse Paul Bocuse? "La cucina francese tramonterà il giorno che gli italiani si renderanno conto delle materie prime che hanno a disposizione". Quindi sì.
Quale altra cucina straniera può insegnarci qualcosa di importante?
Tutte le più grandi. La mia preferita però è quella nipponica. Dai giapponesi, per esempio, ho appreso il kaiseki, che è l'arte di comporre un menu attraverso l'alternanza e il contrasto tra le varie portate. Colore, stagionalità, consistenze, cotture: miscelarli con sapienza sublima l'insieme. D'altronde lo diceva anche Eraclito: "dal contrasto sgorga una bellissima armonia". Ma i giapponesi sono anche maestri nel trattare la materia. Per tagliare un pesce impiegano anni di studio. La loro conoscenza di ogni singolo ingrediente raggiunge livelli che nemmeno ci immaginiamo, è perfezione, è rigore. Ed è questo il tipo di cucina che mi interessa.
La sua ricerca infatti va in quella direzione. Ma la cucina di Marchesi è anche una forma di arte visiva.
Perché il cibo se lo conosci, se ce l'hai davvero dentro, può creare dei capolavori. Tra pochi giorni darò alle stampe un volume fotografico dei miei piatti (ne sfoglia le pagine ancora in bozza, su ciascuna un piatto dalla bellezza sconvolgente). La frase in copertina sarà "Il sapore dell'estetica", subito dopo c'è una scultura che ho fatto io stesso delle mie mani, perché ho sempre avuto la passione per l'arte. Ma è la materia in sé stessa a essere bella. Il cuoco deve solo esporla.
Facile a dirsi, ma se uno non è Gualtiero Marchesi...
Sì, la predisposizione è importante, ma sono soprattutto la passione, la curiosità e l'intelligenza a far raggiungere certi risultati. Come dice mia figlia Paola: un piatto è bello quando è buono. Basta, non serve dire altro. Tanti anni fa, dopo un periodo di nouvelle cuisine, ho capito che dovevo trasferire in sala una parte della preparazione per farla vedere questa bellezza. I clienti riescono ad apprezzare meglio la bontà e l'estetica dei piatti se le capiscono. Così, per esempio, gli faccio portare una fagianella o un'anatra appena cotte, ma tutte intere, su un bel piatto. I pezzi vengono separati in sala e poi la carne deve tornare in cucina perché petto o cosce finiscano di cuocere nel modo più adeguato. Intanto però la gente ha avuto modo di guardare la materia prima e anche di godere della sapienza legata alla manualità, alla professionalità. Quando si è in grado di capire fino in fondo il piatto, lo si ama molto di più.
Lei parla di un sapere che va recuperato, sottolineato. Eppure oggi sembra che tutti siano molto esperti di cucina. Le librerie sono piene di ricettari.
Sembra, ma non è così. Più si scrivono ricette, più si dicono cavolate.
Parliamo dei suoi ex allievi. Molti di loro sono diventati cuochi famosi. Come fa a riconoscere un futuro asso quando lo incontra?
Di allievi ne ho avuti tanti e a ciascuno di loro ho dato un po' di me. Evidentemente era un buon seme. I migliori li ho anche aiutati ad andare all'estero per completare la formazione. Perché noi siamo quello che abbiamo visto e che abbiamo potuto fare. La ricetta è stata valida per me e funziona ancora.
C'è qualcuno di questi ex ragazzi che oggi le piace particolarmente?
Non posso dirlo, altrimenti vengo sgridato.
Suvvia, un maestro può dare i voti.
Ma sono tutti bravissimi: Enrico Crippa, Carlo Cracco, Andrea Berton, Daniel Canzian... Però in questo momento mi sento particolarmente vicino a Paolo Lopriore. Sta per cominciare una nuova avventura in un locale che apre in via Galileo Galilei (il ristorante Tre Cristi, nel nuovo quartiere di Porta Nuova, ndr) e ha deciso di portare gran parte delle preparazioni in sala. Si è attrezzato con pentole di ghisa smaltate, di grande effetto. Farà una cosa bellissima.
Lo ammetta: è lui il suo preferito?
Dovrebbe vedere quello che fa, lavora veramente bene, anzi mi deve assolutamente promettere che ci andrà stasera stessa.
Promesso.
Daniela Falsitta,
29 aprile 2015