Design, colori e atmosfere di qualche decennio fa: così Bertazzoni ha presentato nei giorni scorsi una nuova linea di cucine che si ispira a quelle degli Anni Sessanta. Forse per mostrarne l’attualità e l’appeal per le nuove generazioni, come star della giornata è stato scelto Lorenzo Cogo, classe 1986, lo chef stellato più giovane d’Italia.
Dal 2011, Cogo ha aperto a Marano Vicentino, il suo paese d’origine, “El Coq”, un locale in cui dà vita a quella che ama definire “cucina istintiva”. Nonostante la giovanissima età, prima di stabilirsi a Marano, ha fatto il giro del mondo. È stato a Melbourne, nelle cucine di “Vue de Monde”, considerato a ragione il miglior ristorante d’Australia, poi nel “Marque Restaurant” di Mark Best a Sydney e nel famoso “The Fat Duck Restaurant” di Heston Blumenthal a Londra. In Giappone è stato alla scuola di Seji Yamamoto, che gli ha insegnato le fondamentali tecniche di lavoro e di sensibilità rispetto alle materie prima. In Spagna, nei Paesi Baschi, all’Etxebarri di Victor Arguinzoniz, ha imparato come si cucina alla brace. Il talento naturale e un’indiscutibile determinazione hanno fatto il resto. Con tanto di riconoscimento stellato Michelin.
Senza quella stella, probabilmente, lei oggi non sarebbe qui in veste di protagonista e, probabilmente, non faremmo neanche questa intervista. Che cosa è cambiato dopo il riconoscimento?
È stato un riconoscimento utilissimo. Essere uno chef stellato, e per di più il più giovane in Italia, ha contribuito a farmi conoscere, ma, soprattutto a farmi apprezzare. Questo dipende dal fatto che viviamo in un mondo in cui contano molto le etichette: nel nostro Paese forse anche in più che in tanti altri. Quella stella ha fatto in modo che il mio lavoro venisse preso in considerazione con più rispetto e più serietà. In realtà, oggi non faccio niente di più o di diverso rispetto a prima, cerco di mantenere la qualità e l’impegno che mi hanno portato fin qui. Certo, non posso nascondere che il riconoscimento per il lavoro fatto dà sempre una grande soddisfazione.
Leggendo la sua biografia, non sorprende tanto che lei abbia fatto il giro del mondo, quanto il fatto che, così giovane, abbia deciso di tornare a casa.
È stata una scelta del cuore, più che della logica. Sapevo benissimo che, tornando in Italia, tanto più nella mia terra, sarei stato giudicato in base all’età, invece che in base alle mie capacità. Ho voluto dimostrare, prima di tutto a me stesso, che ce l’avrei fatta mettendo a frutto quello che ho dentro per natura e quello che ho imparato dai miei maestri.
Ma non sarebbe stato più facile aprire un locale in una grande città?
Forse sì, perché la ristorazione si può fare solo in luoghi dove esiste quella che oggi viene chiamata utenza. Ma devo dire che Marano Vicentino, da questo punto di vista, a saperle sfruttare, offre buone opportunità. E poi, per me, era fondamentale lavorare in un ambiente che conosco anche dal punto di vista di ciò che produce. Qui è rimasta quasi intatta la vecchia struttura agricola che offre materie prime di qualità rara. Grano, latte, carne che trovo nella mia terra mi permettono di essere unico. Ritengo di avere il dovere di fare una cucina per cui il viaggio di chi viene nel mio ristorante valga la spesa. Altrimenti non vedo perché, per esempio, una persona di Milano debba prendere la macchina e venire da me.
Per avviare un’attività del genere con questi criteri, oltre a essere un bravo chef, bisogna avere una mente imprenditoriale. Come fa?
Diciamo che ho un carattere molto quadrato. Ho sempre vissuto nel mondo della ristorazione perché la mia famiglia ne fa parte. Ho imparato fin da piccolo quanto questo lavoro sia faticoso e difficile. E ho anche capito che, per riuscire, bisogna che ognuno ci metta del suo. E bisogna che ci metta qualcosa in più anche nelle idee commerciali e nell’impegno quotidiano. Questo si può fare solo se ci affida a collaboratori che condividono obiettivi e impegno. Penso di dover essere il primo in tutto questo, ma penso anche che chi lavora con me debba dare il cento per cento: il novanta mi pare già poco.
Certo che tutto quanto sta dicendo sembra in contrasto con il termine “istintivo” che lei applica alla sua cucina...
Cercavo qualcosa che definisse il mio rapporto con la cucina e con il cibo, più che il mio modo di essere. Ciò che voglio dire con “istintivo” è che da me non ci si deve aspettare sempre lo stesso piatto fatto nello stesso modo. Naturalmente, la personalità garantisce una certa continuità. Ma, per il resto, mi lascio guidare dal rapporto che si instaura con il cliente. Diciamo che faccio un lavoro sartoriale, su misura. E poi, non volevo utilizzare le definizioni che vanno di moda oggi. Ecco, io faccio cucina a modo mio, senza farmi intrappolare dalle etichette inventate da altri. Cucina istintintiva, insomma.
E che cosa a riportato a Marano Vicentino dal suo giro del mondo?
In Giappone ho imparato quanto sia importante conoscere nel minimo dettaglio la qualità della materia prima: comincia tutto da lì e dal rigore con cui si sceglie cosa cucinare. In Spagna, invece, ho imparato a usare il fuoco, a cuocere alla brace. Questa tecnica mi ha particolarmente colpito perché il fuoco in cucina mi ha sempre affascinato, forse perché mi ricorda i tempi dell’infanzia, quando mi alzavo la mattina presto e sentivo il profumo del caffè che mia nonna aveva già messo sulla stufa.
Alessandro Gnocchi
25 maggio 2015