Accanto alla punta sud-ovest della Sardegna, a circa 10 km dall’isola madre, San Pietro e la vicina Sant’Antioco costituiscono l’Arcipelago del Sulcis. Partendo da Portoscuso, da Portovesme o da Calasetta (sull’isola di Sant’Antioco) il traghetto impiega meno di un’ora per raggiungerla attraccando a Carloforte, l’unico paese, che ormai spesso, nel linguaggio comune, ne sostituisce il nome.
Mare cristallino, costa selvaggia, natura incontaminata, l’origine di San Pietro sembra tratta da un romanzo di avventure, pullulante di pirati e isole deserte. Si racconta infatti di una colonia di raccoglitori di corallo genovesi, anzi, del quartiere di Pegli per essere più precisi, che abitava l’isola di Tabarka, vicina alla costa tunisina, già a partire dalla metà del XVI secolo. Quando il corallo iniziò a scarseggiare e i rapporti con gli altri pescatori del Nord Africa si fecero tesi, i coloni chiesero a re Carlo III di Savoia di poter colonizzare un’altra isola allora disabitata.
E così fu. Era il 1738. Sull’isola dei Falchi, o degli Sparvieri, “Accipitrum Insula” per i Romani, oggi isola di San Pietro, gli esuli tabarkini fondarono Carloforte, “il forte di Carlo”, in onore al re che diede loro la terra. Nel 1798, quando un’orda di pirati tunisini invase l’isola di San Pietro e un migliaio di carlofortini fu rapito e ridotto in schiavitù per 5 anni, anche re Carlo IV li aiutò, facendoli liberare dietro generoso riscatto. Una ragione in più per aver scelto quel nome.
Anche a tavola si parla genovese
Di generazione in generazione, i discendenti dei colonizzatori non hanno mai lasciato questa splendida, piccola terra, caratterizzata da coste rocciose e mutevoli per forma e colore, piccole spiagge sabbiose e piatte scogliere che si allungano in mare. Hanno conservato anche il dialetto genovese, arricchito di termini nordafricani e sardi. Lo si può ancora sentire echeggiare negli stretti caruggi di Carloforte: è il tabarkino.
Anche le tradizioni culinarie sono le stesse, che nei secoli si sono intrecciate alle sarde, affiancandole o generando novità. Sarda è, per esempio, la raccolta e la degustazione degli “orziadas”, gli anemoni di mare. Fritti o in pasta, magari con aggiunta di bottarga, hanno il gusto del mare. “Pestu”, “cursetti” e trofiette, “fugasse” e “panissa” arrivano direttamente dalla tradizione genovese, con il pesto che si unisce al tonno sott’olio per il tipico pasticcio alla carlofortina. Dal Nord Africa, invece, apprezzatissimo è il “cascà”, cuscus di verdure e legumi consumato anche nelle grandi occasioni.
Ma Carloforte è famosa soprattutto per il tonno. Si trova infatti sulla rotta che i tonni rossi giganti provenienti dall’Atlantico percorrono da sempre nel Mediterraneo, superando di volata Spagna e Francia, per andare a riprodursi, verso la fine della primavera, tra Sardegna e Sicilia. Gli abitanti di San Pietro seppero approfittare delle abitudini di questi pesci, facendo della cattura e della lavorazione del tonno la principale attività dell’isola, mentre la seconda divenne quella del sale, elemento essenziale per la conservazione del tonno, che i tabarkini riuscirono a raccogliere bonificando le zone paludose intorno al paese e trasformandole in una salina. Un piatto tipico della tradizione è il tonno arrostito e affogato nel vino rosso Carignano.
Ma di questo prezioso pesce non si butta via niente. Si può prendere la trippa e farne una soppressata. Si possono laccare le guance con il miele e dorarle in padella. Si può persino prelevare la buzzonaglia, quella parte scura attorno alla spina dorsale e farne, con salsiccia e pecorino, un sugo per la pasta. Lo sanno bene chef, gastronomi e golosi visitatori dell’annuale Girotonno, la manifestazione che da dodici anni anima il lungomare di Carloforte con una competizione culinaria a colpi di ricette “tonnocentriche”. Sull’isola si sta riscoprendo anche la produzione di vino che era stata quasi dimenticata. Vecchi vigneti riprendo vita e nuovi se ne impiantano per la coltivazione di vitigni autoctoni e produzioni originali e interessanti. Come il Carignano del Sulcis, un rosso intenso che ricorda il mirto ma soprattutto il “Giancu”, sapido, persistente e, ovviamente (per chi mastica un po’ di dialetto ligure) “bianco”.
a cura di Daniela Falsitta, servizio, foto e testi di Studio Spagoni+Mulas