La tradizione della pasticceria campana e napoletana in particolare è spesso legata alla vita monastica e all’abitudine, nei secoli, delle religiose di ricambiare le donazioni fatte ai conventi dalle famiglie nobili napoletane con dolci golosi, le cui ricette erano geloso patrimonio delle cucine monastiche.
Non si può non iniziare parlando del babà, forse il vero simbolo della pasticceria del capoluogo campano, un lievitato a base di farina, uova, zucchero e burro che, dopo la cottura, viene completamente inzuppato in sciroppo di zucchero, rum o altri liquori come il limoncello. Il suo sapore è al tempo stesso zuccheroso e soffice, liquoroso e ricco di contrasto, sapori che si sciolgono al palato, suscitando emozioni davvero uniche. Solitamente la superficie è spennellata con una glassa all'albicocca, che la rende più lucida e attraente. Pare però che il dolce origini in Francia nel Settecento e che sia sbarcato a Napoli nel corso dell’Ottocento. C’entra anche la Polonia, perché fu proprio il re polacco Stanislao Leszczyńki a inventarlo durante l’esilio francese, rifacendosi a un dolce a lievitazione naturale originario della Polonia, la babka ponczowa: a lui – o forse al suo cuoco – si deve infatti la trucco di aggiungere il distillato per rendere il dessert meno asciutto come pure l’intuizione di eseguire una doppia lievitazione per aumentarne la morbidezza. Stanislao, che non riusciva a masticare il dolce della sua terra, gradì moltissimo il soffice e liquoroso dessert.
La tipica forma a fungo della pasta risale al 1835 e la si deve al pasticcere preferito di Maria Leszczyńska, figlia del sovrano polacco, che la creò in occasione delle sue nozze con Luigi XV, re di Francia. Da Parigi il babà è approdato a Napoli con i “monsù”, deformazione della parola monsieur, gli chef francesi che prestavano servizio presso le nobili famiglie napoletane. Oggi se ne trovano molte incarnazioni, di diverse misure e ingredienti, come quella all’Alchermes e quella al limoncello. Spesso vengono serviti a fine pasto con panna e frutti di bosco.
Croccante all’esterno e con un cuore di morbidissimo ripieno, è una vera e propria perla della pasticceria napoletana. La storia della nascita di questo dolce campano la vede nascere a Conca dei Marini, in provincia di Salerno, nel XVII secolo. A inventarla furono le suore di clausura del Monastero di Santa Rosa da Lima con la volontà di riutilizzare – senza sprechi – gli avanzi di altre preparazioni. In cucina era infatti avanzata della pasta di semola che, abbinata alla frutta secca, allo zucchero e a un goccio di limoncello, diede vita a un ripieno delizioso. Si decise allora di inserirlo all’interno di un guscio di pasta sfoglia a forma di conchiglia o di cappuccio di saio da monaco, e di passare il tutto in forno per qualche minuto, così che gli strati sottili venissero resi croccanti dalla cottura. Localmente la ricetta e il dolce conquistarono i palati della zona e alla pasta venne dato il nome di Santarosa (foto sotto).
Pochi anni più tardi, nel 1818, il pasticcere napoletano Pasquale Pintauro riuscì a impossessarsi della ricetta originaria grazie alla zia monaca (dello stesso convento) e, tornato a Napoli, aggiunse qualche modifica creando così la sfogliatella riccia odierna, che nasconde una crema densa di semolino, ricotta, uova e zucchero, con aggiunta di canditi, acqua di fior d’arancio, vaniglia e cannella. La sfogliatella è ormai entrata nel lessico partenopeo, in un detto che la dice lunga sulla considerazione in cui è tenuta dalla città: “Napule tre cose tene belle: ‘o mare, ‘o Vesuvio, e ‘e sfugliatelle”.
Non capita spesso che una variante di un dolce si guadagni lo stesso apprezzamento della ricetta originale, ma la sfogliatella frolla può vantare questo primato. Nasce come la sua (quasi) omonima ma sostituisce al guscio di sfoglia uno di frolla, senza cambiare il ripieno, risultando in un dessert più morbido e friabile, in cui le consistenze di guscio e farcitura si confondono sul palato senza che ciò corrisponda a una perdita di gusto. La sfogliatella, quindi, è adatta praticamente a chiunque: a chi apprezza il contrasto tra croccantezza e sofficità e a chi, invece, preferisce mettere sotto i denti un dolce più omogeneo, ma comunque da brividi. Un’altra variante della Santarosa originaria è la coda d'aragosta, un guscio di sfoglia molto più grande e allungato e ripieno di panna montata – oppure crema chantilly – e crema cioccolato (foto sotto).
Questa pasta napoletana vanta anch’essa origini antiche di stampo religioso e monastico. Si tratta di un dolce di pasta sfoglia ripieno di crema pasticceria e topping di amarene, risalente al 1700. Si può considerare una parentela con la sfogliatella riccia, per via di alcune assonanze, anche se la seconda è di realizzazione più elaborata: la monachina nasce nel “Monastero delle Trentatrè”, convento delle Clarisse Cappuccine nel cuore di Napoli, nato nel XV secolo sull’antico decumano Superiore (probabilmente il nome del convento deriva dal numero di monache che poteva ospitare). Si tratta di una sorta di mezzaluna di sfoglia, ripiena di pasticcera e confettura di amarene - spesso amarene sciroppate.
Un dolce che ha origini antichissime, citato da alcuni scrittori latini che narrano di quando si consumava in onore dell'arrivo della primavera. Sappiamo che la sua ricetta si è tramandata nei secoli pressoché invariata, poiché è un dolce di facile preparazione, caratterizzato da ingredienti poveri: farina e acqua, sale e vino caldi che si lavorano fino a ottenere un impasto morbido e liscio, con cui si formano delle ciambelline leggermente allungate che vanno fritte in olio caldo (ma non fumante), sgocciolate e spolverate di zucchero e cannella. Oltre alla consistenza particolare, la zeppola ha un sapore distintivo, dolce e, al tempo stesso, aromatico, caratterizzato fortemente dalla cannella.
A partire dall'800, per la festa del Papà, il 19 marzo, si prepara una versione dell'antichissima zeppola fritta, la zeppola di San Giuseppe (foto sopra), che viene arricchita, in onore del papà, con crema pasticcera e amarene. Queste delizie – disponibili in versione più leggera, cotte al forno – sono però presenti nelle vetrine delle pasticcerie napoletane tutto l’anno.
Francesca Tagliabue
aprile 2024