Una varietà antica, l’Aglianico, che entra a pieno titolo fra i vitigni più importanti del Bel Paese le cui origini risultano, tuttavia, ancora incerte. Sono infatti molteplici le ipotesi circa la sua provenienza, dalle più valide a quelle più fantasiose. Tra esse, le più accreditate ne riconoscono una parentela con le Vitis Aminee di cui parlava già nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio nel suo De Naturalis Historia, valutate come l’apice qualitativo tra le varietà. I vini che si ottenevano da queste uve, secondo quanto ci riporta Plinio in accordo con altri autori dell’epoca come Columella, spiccavano per robustezza e capacità di perfezionarsi con l’invecchiamento. Queste Vitis, non autoctone secondo queste ricostruzioni, avrebbero pertanto raggiunto il territorio italico assieme agli Eubei, provenienti dalla Grecia.
È proprio questa possibile discendenza a rendere più attendibile l’ipotesi di una connessione tra il nome stesso del vitigno e la sua terra d’origine, identificandone nell’etimologia una derivazione dal termine Hellenico. La prima menzione scritta, ad oggi rinvenuta, della parola “Aglianico”, tuttavia, risale soltanto al XVI secolo: un documento di Giulio Antonio Aquaviva d’Aragona, Conte di Conversano, lo identifica tra le viti presenti nella proprietà. Nello stesso periodo anche Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III, ne fa menzione tra i vini amati da Sua Santità. Un’ulteriore ipotesi sul nome riconosce nella particella “glia” un traslato italianizzato dello spagnolo llano ovvero piano, per descrivere “l’uva del piano” che, a sua volta, muta nella forma dialettale glianica. Un lavoro di ricostruzione forse troppo macchinoso, cui si accompagnano una serie di altre curiose supposizioni che non hanno, a tutt’oggi, trovato riscontri definitivi.
Sono, ad ogni modo, tanti i sinonimi impiegati per descrivere questo vitigno, probabilmente anche in virtù della variabilità legata a fattori ambientali che ne influenzano i caratteri morfologici creando sottili discrepanze sebbene, in termini di DNA, non vi sia sostanziale variabilità genetica. Sono, difatti, soltanto 3 i biotipi riconosciuti al netto delle differenze intravarietali: Aglianico di Taurasi, del Vulture e del Taburno o Amaro. Tuttavia, nel Registro Nazionale è iscritto semplicemente come Aglianico Nero, con sinonimia rispetto all’Aglianico del Vulture Nero, sottintendendo l’identità fra i biotipi sopracitati. Per quanto concerne la sua diffusione, le zone d’elezione si trovano in media-alta collina, in prevalenza territori vulcanici distribuiti tra Campania e Basilicata, come avviene, ad esempio, per la zona del Vulture e del Taburno, con una contenuta presenza anche nella porzione nord-occidentale della Puglia.
Paesaggi talora diversi, dunque, ma climi non troppo dissimili, capaci di valorizzare la spiccata acidità dell’Aglianico e accompagnarlo nella sua lenta maturazione, sempre un po’ tardiva. Quest’ultimo aspetto risulta peraltro di cruciale importanza al fine di produrre un vino di qualità. Le componenti fenoliche, infatti, devono presentarsi, al momento della vendemmia, nelle condizioni ideali per poter garantire una colorazione stabile e tannini non eccessivamente aggressivi. Un’uva, dunque, caratterizzata da un alto potenziale, capace di donare vini complessi e longevi tanto da fargli guadagnare l’epiteto (in special modo quando si parla di Vulture) di Barolo del Sud. Prendendo in esame le principali denominazioni, si varia da una percentuale minima di Aglianico dell’85% per quanto concerne Taurasi e Aglianico del Taburno, entrambe DOCG, al 100% previsto per la produzione dell’Aglianico del Vulture sia DOC che DOCG (quest’ultima riservata alla menzione “Superiore”). I tempi di affinamento variano, giacché l’Aglianico del Taburno può presentarsi anche in versione rosata, e può pertanto essere immesso sul mercato già a marzo dell’anno successivo alla vendemmia. Per le vinificazioni in rosso si arriva sino a 5 anni di affinamento, prima della messa in commercio, previsti per l’Aglianico del Vulture Superiore Riserva.
Al netto delle variabili indotte dal biotipo, dai differenti areali di produzione e dalle scelte enologiche, l’Aglianico mostra sempre nel calice tutto il suo vigore. Il colore, esaminando le versioni in rosso, è rubino intenso, quasi impenetrabile, merito del corredo antocianico che lentamente vira verso sfumature granata con l’invecchiamento. All’olfatto rivela una predominanza di frutti rossi che possono divenire sotto spirito per le versioni più mature, accompagnate da sentori floreali e speziati con nuance balsamiche, ma anche tostature più o meno evidenti in virtù del legno impiegato e dei tempi di maturazione. Il sorso è teso e ampio, con una componente tannica mai del tutto sopita, decisamente fresco nell’approccio, complice l’acidità che caratterizza queste uve.
Portando in tavola una bottiglia di Aglianico, avrete la garanzia di confrontarvi con un vino di potenza, dove le componenti dure prevalgono certamente sulle morbidezze specialmente nelle versioni più giovani. Occorrerà dunque ricercare succulenza nei piatti, e un po’ di untuosità, per poter bilanciare l’irruenza dei tannini optando, ad esempio, per ricette a base di carne ovina in casseruola, selvaggina da piuma come un fagiano in salmì o una pernice al forno. Altrettanto gustoso sarà l’abbinamento con il cinghiale, che sia in umido o spezzatino o, ancora, nel sugo che accompagna delle pappardelle. Anche la carne alla griglia potrà bene accompagnare il vostro calice di Aglianico, optando preferibilmente per dei tagli non troppo magri, che possano garantire la giusta grassezza.
Alessandro Brizi,
marzo 2024