È un settore che va in controtendenza e si rivolge in prima battuta agli oltre 5 milioni di stranieri che vivono in Italia. Ma a questi esercizi (minimarket etnici o take away specializzati in cibi tipici di altre cucine, dal kebab al sushi) non mancano nemmeno i clienti italiani. Non è solo la curiosità gastronomica a spingere un italiano su quattro a fare la spesa anche nelle botteghe etniche. La prima ragione indicata dai clienti italiani è la convenienza poiché la stessa tipologia di merce (non la stessa marca) costa meno anche rispetto a quella dei discount, come avviene, ad esempio, per riso e legumi. Ma c'è anche chi cerca l'assortimento insolito di prodotti e, soprattutto, la comodità; sempre più spesso, questi sono gli unici negozi alimentari rimasti nei centri storici di città e cittadine e quindi sono i più raggiungibili per chi non ha a disposizione un'automobile. Chi ha esigenze limitate in questi piccoli negozi trova tutto quello che gli serve per la cucina di ogni giorno. La comodità è aumentata dal fatto che botteghe e ristoranti etnici take away restano aperti a lungo, anche fino a notte fonda e nei giorni di festa.
In Italia, la capitale di esercizi alimentari etnici è Milano, dove si contano oltre 600 tra negozi e minimarket di questo genere. Nel capoluogo lombardo un ristorante su quattro, un negozio alimentare su sei e un minimarket su tre sono gestiti da stranieri. I più dinamici sono i cinesi e gli egiziani, che sono presenti sia nella ristorazione che nel commercio etnico. L'ultima novità è che compaiono e aumentano i negozi di alimenti provenienti da altri Paesi, come la Romania, la Moldavia oppure gli Stati Uniti. Quanto alla clientela, il 23% degli italiani frequenta anche questi negozi oltre a quelli abituali, ma a farvi la spesa in modo regolare è solo il 5%.
Gli alimenti venduti in questi negozi arrivano letteralmente da tutto il mondo, Italia compresa. I commercianti li acquistano dagli importatori o, nel caso dei deperibili (come ortofrutta e carne), nei mercati generali. In molti casi, comunque, i prodotti freschi venduti nei negozi etnici o usati nelle cucine dei take away sono "100% Made in Italy": fagiolini indiani coltivati in Veneto, cavoli cinesi cresciuti in Piemonte, peperoncini peruviani seminati in Calabria e topinambur provenienti dalla Puglia. A produrli sono in genere piccole aziende agricole gestite da immigrati; solo in Lombardia, sono oltre 300 le imprese i cui titolari sono cittadini non comunitari. Per quanto riguarda le macellerie Halal islamiche che operano nel nostro Paese, i macelli e le norme igieniche sono gli stessi di quelli italiani, cambia soltanto il metodo. Oltre a questi alimenti freschi lavorati in Italia, ve sono anche alcuni confezionati prodotti da aziende italiane, come il laban (il latte fermentato arabo), il cuscus o le patatine fritte olandesi.
Per poter entrare nella Ue, gli alimenti etnici devono garantire gli stessi standard di sicurezza delle produzioni europee. Quindi tutti i prodotti alimentari in commercio, anche all'interno di negozi etnici, devono rispondere a tutti i requisiti previsti per i prodotti di origine nazionale (come etichettatura, condizioni igieniche, corretta temperatura di conservazione). In Italia i controlli sui prodotti che arrivano dall'estero sono affidati a diverse istituzioni: Usmaf (Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera), Pif (Punti di Ispezione Frontalieri) e Uvac (Ufficio Veterinario Adempimenti Comunitari). Ai controlli sulle merci al momento dell'arrivo nella Ue si affiancano poi quelli effettuati direttamente in negozi, laboratori e ristoranti dove arrivano prodotti alimentari da ogni parte del mondo, spesso preparati con ingredienti inusuali o lavorati in modo insolito. A occuparsene sono gli specialisti delle Asl, cui si affiancano gli esperti dei Carabinieri dei Nas. Oltre alla qualità della merce, le verifiche ispettive controllano che il contenuto delle confezioni sia quello indicato nell'etichetta originale e non presenti sostanze o ingredienti non dichiarati o vietati. Per esempio, in una confezione di gamberetti secchi di origine africana sono state ritrovate altre specie ittiche, tra cui un pesce palla, una specie vietata.
Le confezioni riportano etichette originali scritte nelle lingue più disparate e questo comporta la necessità di una preparazione specifica per chi deve effettuare i controlli nei punti vendita. Su ogni alimento confezionato, anche quelli importati dai Paesi extraeuropei, deve comparire un'etichetta scritta in italiano, dove vanno riportati: il nome del fabbricante, il numero dell'autorizzazione rilasciata dal Paese di origine, l'accreditamento europeo dello stabilimento in cui è avvenuta la produzione, l'elenco degli ingredienti e le modalità di conservazione (anche dopo l'apertura della confezione). Queste informazioni possono essere stampate sulla confezione originale o riportate in un'etichetta autoadesiva incollata sulla confezione. I controllori devono quindi anche verificare che la traduzione italiana sia fedele alla dicitura in lingua originale; lo fanno avvalendosi di pc, tablet e smartphone dotati di programmi di traduzione che leggono ogni tipo di alfabeto e di applicazioni per la lettura dei codici a barre. Questi controlli riservano a volte delle sorprese: è capitato per esempio che, dal cinese all'italiano, i molluschi diventassero "snack di patate", il sugo di carne bovina diventasse "marmellata di soia", le lumache si trasformassero in "giuggiole in scatola" e le meduse essiccate venissero chiamate "cuori di palma". Gli acquirenti cinesi, leggendo l'originale in ideogrammi, non sarebbero caduti in errore, ma i consumatori italiani sì.
Manuela Soressi,
gennaio 2024