Nomen omen, dicevano i Romani. Il nome è un presagio. E non c’è nome più presago di quello di un prodotto tipico. Se scrivo mandorla di Noto o agrì di Valtorta voglio certamente indicare la provenienza del prodotto ma anche riferirmi ad altri elementi: quantomeno all’utilizzo di varietà locali di mandorle nel primo caso e alla modalità di produzione dei piccoli formaggi del paese bergamasco nel secondo. Non penseremmo di trovarci di fronte a mandorle di Noto provenienti dal comune siciliano ma di varietà diverse e allo stesso modo non ci passerebbe dalla mente di chiamare agrì dei piccoli formaggi prodotti nelle casere di Valtorta con latte scremato. Sarebbe inoltre difficile riservare la stessa importanza che riserviamo ai prodotti originari se scovassimo mandorle allevate come a Noto e formaggio elaborato con le tecniche in uso a Valtorta, ma ottenuti altrove.
Questa propensione ad assegnare un valore aggiunto alla denominazione geografica è il frutto di una valutazione destinata a restare nella sfera soggettiva, benché condivisa da numerose persone, oppure è possibile trovare una veste giuridica? Infatti nel nostro ordinamento, al di là delle DOP/IGP/STG che ne costituiscono una categoria, manca una definizione di prodotto tipico. Nel paese dove i prodotti tipici sono così importanti pare quasi impossibile, ma le ragioni sono almeno due. Innanzitutto la tipicità rappresenta una acquisizione recente poiché fino a pochi decenni fa la finalità prevalente del cibo era soddisfare le esigenze alimentari. Il passaggio da cibo-alimento a cibo-divertimento ha evidenziato la necessità di etichettare un cibo con l’origine e l’originalità dello stesso. La seconda ragione si deve imputare alla eterogeneità e alla debolezza di questi prodotti, spesso elaborati su scala ridotta (e questo è, anche un pregio), frutto di processi produttivi variabili e poco omologabili. Tali prodotti sono inoltre spesso fuori dai circuiti di produzione di massa (il sistema distributivo è prevalentemente con vendita diretta, attraverso la ristorazione locale o negozi specializzati) e la loro conservazione non è di medio o lungo periodo. Se non esiste la definizione di prodotto tipico, esiste però quella di prodotto tradizionale. L’istituto ha preso vita per arginare la scomparsa del patrimonio alimentare italiano a seguito dell’introduzione delle norme europee relative alla sicurezza alimentare. I prodotti tradizionali sono identificati con metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura il cui uso risulta consolidato dal tempo. Il periodo di tempo venne successivamente esplicitato con una durata non inferiore a venticinque anni. Da questa definizione restano escluse le caratteristiche materiali del prodotto; tuttavia il lasso di tempo pari a un quarto di secolo offriva una completa affidabilità sotto il profilo della sicurezza alimentare. I prodotti tradizionali erano salvi, ma non quelli tipici. Nel linguaggio comune tipico s’intende caratteristico di un luogo. Se è vero che ogni prodotto tipico è anche tradizionale, non è vero il reciproco. Il prodotto tradizionale può avere dietro di sé una storia che è divenuta patrimonio di luoghi diversi e avere perso, pertanto, la sua tipicità. L’esempio più calzante è dato dalla mozzarella, della quale alcuni produttori sono riusciti a conservare la ricetta produttiva tradizionale, ma non l’area geografica di origine.
Proprio per rispondere a forme di definizione (e, di conseguenza, tutela) dei prodotti tipici, Luigi Veronelli preconizzava già a fine anni Sessanta del secolo scorso la Denominazione Comunale (alcuni esempi sono presenti nel suo Viaggio all’Italia piacevole, Garzanti, 1968). Quando conobbi Luigi Veronelli ci univa l’amore ed il rispetto nei confronti di Lucia. Era il nome di una delle sue figlie ma anche della mia insostituibile compagna d’allora. La frequentazione con l’indimenticato giornalista inventore del giornalismo enogastronomico italiano mi diede la possibilità di comprendere l’importanza nella difesa dei prodotti tipici e di studiare la formula più adatta ad inserire la Denominazione Comunale (DE.CO.) all’interno dell’istituto del Marchio Collettivo Geografico. La redazione di un disciplinare di produzione e le caratteristiche del prodotto finale, il deposito di un marchio da parte del Comune con le condizioni di accesso al marchio e il sistema di controllo e sanzionatorio erano elementi che non comparivano nel pensiero veronelliano, ma risultavano indispensabili per renderlo attuabile. Così nel giugno 2002 realizzai la prima DE.CO. nello stesso Comune dove ero assessore. Era la farina da polenta di varietà Belgrano. In breve la notizia prese il sopravvento su tutte. Nel mese di luglio Luigi Veronelli, sul Corriere della Sera, mi definiva mio primo missionario. Il livello di discussione sulle DE.CO. è apparso però quasi sempre arretrato soprattutto per la loro diffusa introduzione mancante dell’adeguata copertura giuridica e pertanto pressoché inutili (laddove non dannose per la confusione creata al consumatore). Molti amministratori comunali ne hanno saggiato innanzitutto le potenzialità in termini di ritorno di immagine scrivendo una scarna delibera, ma lasciando privi di protezione gli oggetti che si desideravano tutelare da imitazioni e contraffazioni.
Corruptio optumi, pessima: non c’è nulla di peggio che l’alterazione del meglio. Pensavano costoro di organizzare in maniera sbrigativa uno degli strumenti che ha richiesto anni di riflessioni e lavoro.
"Ho lavorato, con Riccardo Lagorio, per il successo delle Denominazioni Comunali. Non passa giorno che Comuni d’ogni luogo d’Italia aderiscano con nuove delibere. L’Italia ne avrà, finalmente, benessere e serenità."
Luigi Veronelli, 17 maggio 2004
Dalla introduzione di Viaggio ai Comuni a Denominazione Comunale (Riccardo Lagorio, Forterrea editore, 2007).
Riccardo Lagorio,
maggio 2023