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I vitigni dimenticati da riscoprire

News ed EventiNewsI vitigni dimenticati da riscoprire

Vitigni dimenticati, trascurati ed abbandonati, ma che meritano di essere riscoperti, valorizzati ed apprezzati

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Nel nostro Paese non sono pochi i vitigni che, per ragioni di produttività o di difficoltà nella coltivazione, possiamo dire che nel tempo sono stati "dimenticati". Ma a che meriterebbero di essere reimpiantati o riscoperti per contribuire alla valorizzazione (e a volte il recupero) del territorio. Negli ultimi anni, tanti sono stati gli sforzi da parte di imprenditori e cantine che, con sguardo visionario, hanno saputo salvare diversi vitigni donandogli una nuova vita. Un'azione di riqualificazione che prevede coraggio, pazienza e tanta passione per la vite. Di seguito vi raccontiamo alcuni casi di recupero di vitigni italiani tutti da scoprire. Perché proprio l'Italia vanta il più grande patrimonio di varietà di specie vinicole mondiale. 

Erbamat

Erbamat, l'autoctono della Franciacorta
Castello Bonomi
è una delle cinque aziende che circa dieci anni fa decise di appoggiare la più grande sfida intrapresa dal territorio: recuperare e valorizzare l’antico vitigno autoctono bresciano Erbamat, citato per la prima volta nel 1564 da Agostino Gallo, agronomo italiano del Cinquecento nel libro, “Le vinti giornate dell'agricoltura et de' piaceri della villa” in cui definisce Erbamat, al tempo “albamate”. Ne risultò un profilo interessante: l’Erbamat è un vitigno a maturazione relativamente tardiva, circa un mese dopo rispetto allo Chardonnay, con un buon corredo acidico, in particolare malico, capace di compensare almeno in parte il rischio di riduzione dell’acidità nei vini base. Proprio l’acidità nelle basi spumante è un elemento fondamentale per conferire freschezza e longevità e va quindi preservata il più possibile. Castello Bonomi fu l’unico a vinificare separatamente queste uve e, per questa scelta, è oggi l’unica azienda a disporre di una verticale di annate dalla 2011.

La Malvasia a bacca nera di  Castello di Meleto
La Malvasia a bacca nera appartiene a quella famiglia di vitigni il cui nome deriva da una variazione contratta di Monembasia, roccaforte bizantina ubicata in un promontorio posto a sud del Peloponneso, dove venivano prodotti i vini dolci che furono poi commercializzati in tutta Europa dai Veneziani. Nella zona del Chianti, fino ad oggi, è stato utilizzato per ammorbidire il Sangiovese, grazie alle sue note caratteristiche di morbidezza e freschezza. Ma Castello di Meleto è l'unica cantina che gli ha dedicato un cru: si chiama Camboi ed è stato riconosciuto con ben 91 punti dalla guida Veronelli e 90 da James Suckling. Ma c'è molto di più: Castello di Meleto è il simbolo di Gaiole in Chianti, uno dei comuni più alti della denominazione. Alla vista il maniero si presenta perfettamente integro. Molto invece è cambiato nella sua storia recente, una vera e propria rivoluzione che inizia nel 1968 con la “Operazione Vigneti”, primo crowdfunding italiano nel mondo del vino, grazie all’intuizione di Gianni Mazzocchi, editore di riviste come Quattroruote e Quattrosoldi. Proprio ai lettori fu proposto di acquistare delle quote di un patrimonio italiano che rischiava di venire abbandonato. Nasce così Viticola Toscana, oggi Castello di Meleto Società Agricola, proprietaria del Castello e degli oltre 1100 ettari di terreno.

Castelletto di Montemagno e il Ruchè di Castagnole Monferrato
Nel 2015 l'azienda Ferraris Agricola ha acquistato un appezzamento, completamente abbandonato e coperto da rovi e sterpaglie, per un’estensione complessiva di 6 ettari, nel comune di Montemagno. Il lavoro  si è articolato in tre fasi: la prima ha visto la scelta e l’acquisto, frutto dell’accorpamento di sedici proprietà differenti. La seconda, più complessa e durata due anni, è stata completamente dedicata alla riqualifica. A partire dal 2017, Ferraris Agricola si è dedicata alla vigna: l’impianto e la coltivazione.  Nel 2022 è poi stata finalmente presentata la prima bottiglia di Castelletto di Montemagno DOCG Riserva nata da quell'appezzamento. E qui hanno iniziato a coltivare una tipologia quasi dimenticata di Ruchè di Castagnole Monferrato, tra le uve a bacca nera sicuramente meno note del Piemonte. 

vigneto di venezia

Il vigneto sperimentale di Venezia: per riscoprire i vitigni veneti
Dal 2010 il Consorzio Vini Venezia ha dato vita all’ambizioso progetto di recupero della biodiversità vitivinicola a Venezia: due vigneti sperimentali nel cuore della città lagunare. Tale progetto ha visto la creazione di una collezione di viti che costituisce una banca genetica delle varietà (individuate tramite analisi del DNA) presenti nel territorio veneziano. L’obiettivo è quello di scoprire origine, provenienza e le caratteristiche delle varietà ancora presenti in città e la loro conservazione. Questo lavoro ha comportato una profonda ricerca che ha visto una squadra di tecnici varcare i muri di broli, giardini pubblici e privati e dei Conventi, grandi detentori di questi “tesori” varietali, per mappare questa “banca genetica”.

I vigneti recuperati dalla famiglia Librandi 
La tenuta Rosaneti, dove si trova il noto vigneto a spirale, rappresenta il desiderio della famiglia Librandi di puntare fin dall’inizio della loro storia sulla ricerca in campo vitivinicolo ma anche e soprattutto sulle produzioni autoctone. Due le considerazioni che hanno ispirato all’epoca le scelte dei Librandi: la prima che il patrimonio viticolo calabrese è ricchissimo; la seconda che esso è parimenti oscuro dal un punto di vista scientifico viti-enologico. Nasce da queste considerazioni l’esigenza di raccogliere e studiare in modo analitico il germoplasma viticolo calabrese. Nella tenuta di Rosaneti vengono quindi messi a dimora la maggior parte dei campi sperimentali dell’azienda, tra gli altri: il giardino varietale con la caratteristica forma a spirale; i primi campi semenzali e quelli di selezione massale e clonale. Tra i vitigni recuperati che meritano menzione il Mantonico e Magliocco.

vigna del gallo

Vigna del Gallo: il progetto del Consorzio Doc Sicilia 
La Vigna del Gallo, oggi “Vigna del Gallo - Diego Planeta”, ospita 95 biotipi di viti autoctone all’interno dell'Orto Botanico di Palermo e rappresenta un progetto promosso dall’Università degli Studi di Palermo e dal Consorzio di tutela vini Doc Sicilia per valorizzare le varietà autoctone della regione. In uno spazio unico trovano posto le specie più antiche siciliane e le cultivar indigene riscoperte, emblema della storia enologica dell’isola e vero e proprio museo a cielo aperto offerto alla cittadinanza, ai visitatori e agli appassionati che hanno così l’opportunità di soffermarsi sulla bellezza del luogo e conoscere una parte della storia della Sicilia. 

Camilla Rocca
agosto 2022

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