Ci sono piatti di cui raramente si parla o che non si conoscono affatto. A parole come gjimave, kulac, shëtridhlat, tepsi e via dicendo è difficile dare un significato. Invece lo conoscono gli arbëreshë, ossia gli albanesi d’Italia: una minoranza linguistica formata da poco più di cinquanta comunità per un totale di circa 100 mila persone sparse tra Calabria, Sicilia, Basilicata, Puglia e anche Abruzzo.
Della madre patria conservano tuttora orgogliosamente la lingua, una serie di usanze religiose (come il rito bizantino durante la messa) e hanno sviluppato una cucina di contaminazione che vanta qualche secolo: quando, a partire dall’inizio del ‘400 gruppi di cristiani ortodossi provenienti dall’Albania bizantina si insediarono in alcune zone del Mezzogiorno. Per primi arrivarono i soldati, chiamati a fornire i loro servizi militari, una volta da feudatari calabresi contro gli Angioini, un’altra a fianco degli Aragonesi, ottenendo, in cambio, di stanziarsi sul territorio con le loro famiglie. Un secolo dopo furono le persecuzioni religiose dei turchi a far fuggire la popolazione albanese verso l’Italia. Sette, otto ondate migratorie in totale che si conclusero alla metà del ‘700.
Le famiglie si sistemarono dove c’era terra da coltivare, bestie da allevare o dove la manodopera era richiesta fondendosi con la popolazione locale e il cibo ha fatto da legante. Così, il gjimave, ossia cacio, uovo e agnello preparato negli ultimi giorni di Carnevale nei comuni albanofoni del Molise, non può non ricordare il pasquale “agnello cacio e ove”. Il cugliaccio (kulac) dolce simbolico di San Costantino Albanese in Basilicata, preparato in occasione di Pasqua o dei matrimoni con i suoi intrecci e la sua simbologia riporta alle cuddure, ai casatielli e alle cuzzupe (ve ne raccontiamo storia e ricette a pagina 20) o ai tanti dolci matrimoniali di cui la Calabria è ricca.
Un vero capolavoro di manualità sono le shëtridhlat ossia striglie: un panetto di acqua e farina lavorato così a lungo da formare un cerchio sottilissimo e lunghissimo di pasta che viene raccolto a gomitolo e ancora lavorato sino a formare delle tagliatelle e ricorda le più spesse “manate” lucane. Difficile da spiegare, ma uno spettacolo da guardare.
La comunità arbëreshë più a Nord è quella abruzzese, qui nel territorio di Pianella trovarono ospitalità nel 1743 una ventina di famiglie provenienti dall’Epiro. Oggi a Villa Badessa, frazione del comune di Rosciano (Pescara), vive una coesa comunità di poco più di 300 anime e un’associazione culturale tiene vive le tradizioni, qui il piatto più tipico si chiama tepsi, come la teglia che contiene questa torta salata in cui la sfoglia ricopre un ripieno di spinaci, riso, cipolle e pinoli. Un erbazzone ante litteram? Chi lo sa, ma del piatto reggiano esiste una variante con il riso, cereale che nel ‘700 era coltivato anche nelle zone costiere dell’Abruzzo. È difficile capire come i piatti arbëreshë abbiano influenzato la cucina italiana o viceversa ma sicuramente raccontano la storia di un’immigrazione e poi di un’integrazione che ha portato contemporaneamente conservazione, contaminazione e innovazione.