Mia nonna ha sempre favoleggiato della bontà dei fichi che raccoglieva nei terreni di suo padre. Terrazzamenti, per noi liguri “fasce”, che il bisnonno coltivava a vite, orto e frutteto. Nel raccontare tale bontà sciorinava nomi per me incomprensibili: Pissalutto, Binellone, e soprattutto Brigiasotti. Erano le varietà che ricordava e che io non ho mai mangiato perché, quando ero bambina, le fasce del bisnonno avevano lasciato il posto ai palazzi. Per dirla alla Celentano “là dove c’era erba ora c’è una città” e Genova aveva conquistato le alture.
La curiosità di assaggiare i Brigiasotti mi è rimasta e chissà se casualmente li ho gustati, ma so che tutte le varietà di cui la nonna parlava sono tipiche della mia terra. Nel 1820 Giorgio Gallesio, diplomatico e agricoltore, dava alle stampe il “Trattato del fico”, un censimento delle varietà italiane e in particolare liguri: ne individuava una decina con differenti caratteristiche di forma, colore, gusto. “Il Pissalutto è il più gentile dei fichi, comunissimo in tutto il Genovesato”, mentre il Brigiasotto “è il re, primeggia sia come frutto fresco che come frutto secco. È il gigante dei fichi... ne esistono in Liguria delle piante di una dimensione sconosciuta in Italia”. La buccia verde gialla sottile e la sua polpa rossa zuccherina riecheggiano ancora nelle parole della nonna.
E infine il Dottato, il Binellone in dialetto, di cui Gallesio scrive: ”Uno dei più pregiati in Italia per la sua bellezza e morbidezza, in Liguria non si coltiva che come fico da seccare, né osa comparire sulle mense quando sono fornite di Brogiotti e Pissalutti”. Un rapporto di lunga durata quello dei liguri con gli alberi di fico, perché adatti ai terreni impervi e perché in zone dove il castagno non nasceva, davano frutti nutrienti che potevano essere conservati e diventare merce di scambio.
Un rapporto di odio e amore, tanto che in Liguria si dice: “Ciù traditò che ‘n erbo de figo” (più traditore di un albero di fichi),
per parlare di una persona di cui non c’è da fidarsi; il fico invadeva i campi, era difficile da tagliare e chi saliva per raccogliere i frutti rischiava di cadere per la cedevolezza dei rami. Oggi non so quante di queste varietà autoctone esistano, ma certo in qualche fascia-orto qualcuno gode ancora della bontà dei frutti. Che a dire di mia nonna erano maturi quando emettevano una goccia; quella che ancora oggi fa sognare le mie papille.
Un affettuoso abbraccio da tutta la redazione
di Laura Maragliano