Donne, buoi e, da oggi, anche salse dei Paesi tuoi. Il vecchio proverbio andrebbe corretto così. E se sui primi due elementi si può anche discutere, il terzo pare proprio il più importante.
A lanciare l'allarme è stato un approfondito articolo del New York Times in cui si riferisce come la passione americana per il nostro pesto genovese stia mettendo a rischio gli equilibri ecologici di una parte del pianeta.
Stentate a crederlo? Eppure lo assicura un eminente scienziato.
Ma vediamo la questione dal principio.
Prima di tutto a scatenare il problema è stata la smodata richiesta di un particolare ingrediente della ricetta: i pinoli!
Li vuole l'industria alimentare che produce tonnellate di pesto in barattolo, li ordinano gli chef dei ristoranti italiani sparsi sul territorio Usa e li cercano i consumatori che si dilettano nel surgelare enormi quantitativi di salsa ligure da utilizzare durante tutto l'anno.
I pinoli però non si trovano facilmente. In Italia quelli buoni vengono dalla Versilia, costano minimo 60 euro al chilo, e già faticano a coprire il fabbisogno nazionale. Figuriamoci che cifra raggiungerebbero una volta esportati.
Gli Americani quindi si accontentano di pinoli di pino coreano, una pianta alta 30 metri che cresce nelle foreste russe al confine con la Cina.
Pur essendo più piccoli e meno profumati dei nostri, i pinoli raccolti in Russia hanno un prezzo assai più contenuto. Ma un costo ambientale altissimo.
Il biologo Jonathan Slaght, che per vent'anni ha studiato le tigri e ora è a capo del programma russo della Wildlife Conservation Society, denuncia una situazione di grave squilibrio che crea danni per la vegetazione e, a cascata, per gli animali e infine per l'uomo.
Prima che le foreste di pino coreano venissero prese d'assalto da eserciti di raccoglitori di pigne, infatti, erano uno degli habitat principali della fauna che vive sul territorio russo. Qui uccelli, scoiattoli e orsi neri potevano contare sui pinoli per cibarsi nella stagione fredda, mentre cinghiali e renne masticavano o sgranocchiavano le pigne.
Quanto alle tigri si nascondevano tra gli alberi per poter cacciare le prede.
Ora le foreste non sono più abbastanza fitte e silenziose perché i raccoglitori costruiscono strade per attraversarle agevolmente, mentre pigne e pinoli finiscono nei sacchi rivenduti ai commercianti cinesi e da questi esportati nel Nord America. In base al prezzo di mercato, i commercianti locali pagano solo 6 dollari per un sacco che contiene in media circa 125 pigne. Ma dandosi da fare, un gruppo ben organizzato riempie 4000 sacchi in sole sei settimane.
Il risultato, ovviamente, è che gli animali patiscono la fame e per trovare il cibo si spostano di alcuni chilometri, lasciano la foresta e invadono le zone abitate. È già capitato che un gruppo di orsi bruni affamati sia entrato nella cittadina di Luchergorsk, a est del confine con la Cina, attaccando gli abitanti.
"Vale la pena di incidere così pesantemente sull'ecosistema del pianeta per mangiare un buon pesto?", si è chiesto Jonathan Slaght nell'articolo. Secondo il biologo basterebbe omettere i pinoli nella preparazione, oppure sostituirli con noci, mandorle o pistacchi. "In fondo", dice lo studioso per convincere i lettori del New York Times, "i libri di cucina sono pieni di varianti di pesto senza pinoli".
In attesa di sapere se verrà ascoltato, gliela vogliamo dare noi agli americani un'altra soluzione?
Daniela Falsitta,
21 ottobre 2015