Gli italiani avevano deciso: l'acqua deve rimanere un bene di tutti. Lo hanno fatto nel 2011 usando lo strumento di democrazia diretta previsto dalla costituzione, il referendum. Ciò che la maggioranza quasi assoluta (96%) dei cittadini aveva deciso, non è però mai stato realmente preso in considerazione. Anzi. Adesso le privatizzazioni sono più che mai alle porte. E intanto le bollette continuano ad aumentare. Vertiginosamente.
Partiamo dai prezzi. Negli ultimi 10 anni (dal 2004 al 2014) il costo dell'acqua per il cittadino italiano è aumentato di quasi il 100%, per la precisione il 95.8%. Considerando l'inflazione, il rincaro reale è stato però «solo» del 74.4% (una media del 7.5% all'anno): un rincaro mostruoso, triplo rispetto ai Paesi dell'euro. Anche altri servizi sono aumentati parecchio: trasporti e rifiuti il doppio rispetto alla media europea. Il caso dell'acqua, però, è quello più netto, e le tariffe sono destinate a lievitare ulteriormente. Lo ha rivelato l’ufficio studi di Confartigianato. I rincari variano parecchio a seconda del luogo: la bolletta più cara d'Italia l'hanno pagata i cittadini di Firenze, 563 euro contro i 355 della media nazionale.
In più la gestione è inefficiente, dato che in Italia di acqua ne va dispersa moltissima, e anche in quanto a sprechi siamo ai primi posti della classifica a livello continentale. Gli investimenti richiesti per il nostro sistema idrico sono di svariate decine di miliardi, di cui 6 subito, se si vuole evitare la sanzione da 485 milioni l'anno che pende sul nostro Paese dalla Ue se non sistemeremo le pecche più gravi che riguardano la depurazione.
In Italia la gestione del servizio idrico è largamente in mani pubbliche. Sono quattro le formule esistenti. La prima è quella della gestione pubblica diretta da parte dei comuni: è il caso in molti comuni di piccolissime dimensioni, con l'eccezione di Napoli, che ha ratificato un paio di settimane fa la sua decisione di diventare il primo esempio italiano di società pubblica, con partecipazione dei cittadini, tramite comitati coinvolti nelle scelte.
Il secondo modello è quello delle cosiddette 'in house', società a capitale pubblico al 100% ma con una gestione di tipo privato, la Spa. E' questo il caso per esempio di Milano e Torino e province. La terza è quella di società a capitale misto pubblico e privato, come è il caso di varie grandi città come Bologna e Roma, dove il pubblico gestisce con le grandi multiutility come Hera e Acea. E infine il privato puro, situazione minoritaria in Italia – con Arezzo capofila.
Il governo sta attualmente varando una serie di misure e canali preferenziali per spingere verso la privatizzazione, che viene premiata. «Innanzitutto il decreto Sblocca Italia (legge n. 164), che immette regole per fare in modo che le società vadano verso una fusione tra loro, spingendo verso il gestore unico, scelto tra chi gestisce il servizio per almeno il 25% della popolazione – spiega Erica Rodari, coordinatrice del Comitato Milanese per l'Acqua Pubblica – Poi la legge di Stabilità, che rende onerosa la gestione delle 'in house' tassando gli enti locali e soprattutto favorisce i privati incentivando gli enti pubblici locali a cedere le loro quote.
Come? I ricavi delle quote di partecipazione a società miste vendute ai privati potranno essere utilizzate dai Comuni fuori dalle rigide regole del Patto di Stabilità: in un momento in cui il governo taglia pesantemente i fondi agli enti locali, avere soldi freschi da gestire indipendentemente è ovviamente un grosso incentivo. Non solo: i finanziamenti governativi al servizio idrico saranno prioritariamente assegnati ai privati o a quelle situazioni che hanno già deliberato l'aggregazione».
Premesso che tutto ciò è esattamente il contrario della volontà espressa dai cittadini con il referendum, se l'acqua venisse privatizzata, i costi si abbasserebbero? «Esattamente il contrario.
Quando un'azienda è una Spa, la sua 'mission' è fare profitti per i soci – siano essi privati o pubblici, e quando un privato entra in un'azienda con il 30 o 40%, come minimo si prende l'amministratore delegato spiega Mariangela Rosolen, coordinatrice del Comitato provinciale Acqua Pubblica Torino – Ciò che noi e il Forum italiano dei movimenti per l'acqua chiediamo è che l'acqua non sia una merce: le tariffe devono coprire tutti i costi, ma non dare profitti (la SMAT di Torino ne ha fatto per 64 milioni di euro negli ultimi cinque anni, per esempio, facendolo però pagare due volte ai cittadini per la stessa acqua, con un conguaglio). Chiediamo che a gestire l'acqua siano aziende di diritto pubblico, perché lo scopo è erogare un servizio, come l'istruzione e la salute».
Il comitato milanese è più 'permissivo', e non punta necessariamente anche sul superamento della 'in house'. Sarà che Milano – come Torino sono tra i rari esempi italiani di acqua gestita tutto sommato bene. A Milano la bolletta è la più bassa d'Italia, e gli sprechi si limitano a un 10% (in parte fisiologico), contro il 40% di certe situazione al Sud. Comunque, «non c'è un caso in cui i privati abbiano ridotto le tariffe. Ed è vero che in Italia la rete idrica è disastrata e c'è bisogno di investimenti consistenti, ma non sono i privati a garantirli», dichiara Rodari. Lo scopo di lucro non fa bene all'acqua.
Carola Traverso
26 marzo 2015